venerdì 27 agosto 2010

la torre di Londra

Mentre qui in Italia, nel 1980, si ascoltavano Renato Zero e Anna Oxa nel jukebox del mare, in Inghilterra la BBC produceva un documentario sulla registrazione del pezzo "Towers of London" degli XTC ai Manor Sound, gli studi di Richard Branson. Un'ora intera che ripercorre la stesura e la registrazione di uno dei brani più belli del repertorio di Andy Partridge, Colin Moulding e amici (qua sotto la prima parte, le altre su YouTube). Un po' come se la RAI avesse dedicato un'ora delle proprie trasmissioni alla nascita di "Contessa" dei Decibel al Castello di Carimate. Questione di punti di vista: per gli inglesi è cultura, per noi italiani hobbysmo giovanile. Indovinate chi ha ragione...

sabato 21 agosto 2010

happy birthday joe


L'ho intervistato una volta sola, nel 2001, dopo l'uscita di "Global a go-go" e poco prima che morisse. Oggi avrebbe compiuto 58 anni. Buon compleanno, Joe!

Allora Joe, sei tornato al lavoro in maniera costante. Due album nel giro di poco tempo dopo un lungo silenzio.

È vero. La parte più difficile è stata trovare nuovamente un team vincente per ricominciare a suonare, qualcosa che mi desse gli stimoli giusti e facesse funzionare il tutto perchè non riesco a incidere dischi o a provare canzoni se la gente che suona con me non è sulla stessa lunghezza d’onda. Credo che ogni musicista possa raccontarti di quanto è penoso riuscire a trovare un sostituto se, per esempio, se ne va il batterista. E non si tratta solamente di una questione tecnica perchè poi con quelle stesse persone tu ci esci anche dopo aver suonato e devi passare un sacco di tempo con loro. L’ultima volta che abbiamo suonato in Italia, siamo partiti in autobus dall’Inghilterra e abbiamo guidato fino a Napoli. Immagina di dover stare chiuso lì dentro con della gente che non ti piace, diventeresti pazzo o faresti a botte.

Questo è il motivo per cui non hai più suonato con una band dopo lo scioglimento dei Clash?

Al momento dello scioglimento eravamo diventati dei freaks. Dopo tanti anni in un gruppo di successo è difficile ritornare con i piedi per terra e metterti sullo stesso piano con altri musicisti che non sono famosi come te. Ci ho messo parecchio tempo a rimettermi nel giusto ordine di idee perchè non volevo suonare solamente con una backing band e anche se il disco esce a nome Joe Strummer & The Mescaleros, abbiamo tutti lo stesso peso nell’economia del gruppo. Questo è il modo in cui voglio lavorare e sono felice che quasi tutti i pezzi siano accreditati alla band nel suo insieme. Il mio messaggio è: devi unirti a qualcuno per fare della buona musica; capisco che non sia universale ma per me funziona così. Quando ero nei Clash mi piaceva mettere le magliette con il nostro nome ma quando, nel 1988, ho fatto un album da solista odiavo le t-shirts con scritto Joe Strummer, mi sembravano stupide con quel nome solitario lì sopra.

Per un certo periodo hai anche suonato con i Pogues, un gruppo piuttosto famoso all’epoca.

Beh, devi tenere conto che non sono mai stato un membro effettivo vero e proprio. Quando il loro chitarrista si ammalò prima di un tour mondiale, gli altri decisero di chiedermi se potevo sostituirlo. Quindi, alla fine, ero più un ospite che altro, anche se i Pogues sono dei grandissimi amici prima che dei musicisti. Stavo giusto riascoltando qualche loro disco poco tempo fa e devo dire che suonano ancora straordinariamente bene nonostante gli anni. Hanno resistito all’usura del tempo. Mi ricordo quando uscì “A rainy night in Soho” e la gente pensava che fossero dei poveracci, anche i critici la pensavano così. Sono contento che si siano dovuti ricredere e abbiano dovuto ammettere la loro grandezza.

Quali tuoi dischi pensi che abbiano resistito all’usura degli anni?

“Global a go-go”, il nuovo album, penso che resisterà bene, poi “Sandinista”, “London calling” e “The Clash”.

La rivista inglese Mojo ha paragonato il tuo nuovo disco ad “Astral weeks” di Van Morrison.

Davvero? Forse c’è un certo feeling acustico comune ma non saprei. Comunque, parlando di quel disco, c’è un aneddoto che ti voglio raccontare. Se tu provi ad ascoltare attentamente le parti di basso ti accorgi che sono suonate in maniera stranissima (comincia a mimare con la bocca un suono assurdo che dovrebbe essere il basso - nda). Tutte le volte che lo mettevo su pensavo che quel bassista fosse o un genio oppure un ubriaco e così ho cominciato ad indagare su questa cosa e alla fine ho scoperto cos’era successo. L’etichetta discografica decise di far suonare dei musicisti jazz di New York come backing band pensando che, siccome erano dei mostri di tecnica, ci avrebbero messo meno tempo a registrare e a loro sarebbe costato meno. Immaginati questi due musicisti neri che non sapevano nulla di Van Morrison e che cercavano di suonare del be bop mentre lo accompagnavano. Una parte della magia di quel disco sta in questo incidente di percorso.

Ultimamente hai anche lavorato con Brian Setzer...

Sul suo ultimo disco c’è un pezzo che abbiamo scritto assieme ma risale a quasi due anni fa. Non eravamo molto soddisfatti del lavoro e lo avevamo cestinato. Christine, sua moglie, lo ha recuperato, ha cambiato una parte delle liriche e Brian ha deciso di includerlo nell’album.

C’è un concetto preciso dietro a “Global a go-go”?

La verità è che non c’è nessun concetto preciso. Nel campo artistico si è sempre in obbligo di fornire delle spiegazioni per il proprio lavoro e molto spesso sono delle grosse cazzate. Non c’è un concetto perchè non avevamo nessuna idea di quello che stavamo facendo. Ovviamente quando scrivo dei testi per le canzoni ho in mente un’idea ben precisa ma tendo a procedere un pezzo alla volta e non riesco a focalizzare il lavoro nel suo insieme. Forse potrei dirti che “Global a go-go” si riferisce al fatto che bisogna cercare di farsi entrare in testa che viviamo sullo stesso pianeta, che ne esiste uno soltanto, uguale per tutti. A parte questo non saprei cosa raccontarti, perchè credo sia stupido cercare sempre un significato a tutto ciò che succede. A volte bisogna accettare le cose come vengono senza pensarci troppo su.

Quello che si dice il bello della musica...

Credo di sì, il punto è proprio quello e io sono molto superstizioso quando si parla di musica. Non credo che ai Beatles fregasse qualcosa delle armoniche o di come si leggeva la musica sugli spartiti o della teoria. Parlando di me, non ho mai pensato a come fare per scrivere una canzone, lo facevo e basta. Non ho mai analizzato i miei pezzi cercando di capire come avevo fatto a comporli perchè non mi interessa. Nascono da soli e sono felice così. È il tuo mestiere quello di dire delle cose estremamente intelligenti sul mio lavoro, una tua preoccupazione (ride).

Hai lavorato di nuovo in campo cinematografico recentemente?

Non voglio più avere a che fare con un film in vita mia. Ho cercato di capire se sarei stato una stella del cinema perchè è il sogno che tutti hanno nella vita ma ho realizzato in fretta che non faceva per me, è troppo difficile. Però tre anni fa, un francese pazzo ha insistito così tanto che ho accettato di incontrarlo. In meno di dieci minuti mi aveva convinto a recitare in un delirio che si chiama “Docteur chance”. Quel ragazzo è una persona interessantissima e molto colta, abbiamo parlato per ore di un sacco di cose che io non conoscevo e alla fine sono stato contento di averlo fatto. È stato come andare all’università perchè lui parlava come una mitraglia in un misto di francese, inglese e spagnolo e io lo stavo ad ascoltare. Devo dire che mi piacerebbe lavorare di nuovo con lui e sono curioso di vedere come è venuto il film visto che è appena uscito in DVD. Ci sono anche i sottotitoli in inglese ma penso che nessuno capirà niente lo stesso (ride). È stato presentato ad un festival di cinema a Londra e dopo la proiezione io e lui siamo saliti sul palco per rispondere alle domande del pubblico. Nessuno ha osato chiedere niente e ti assicuro che era una situazione molto imbarazzante. Se non piace alla gente che va a quei festival mi chiedo cosa ne penseranno gli altri.

Tornando al disco nuovo, devo dire che fa capolino di nuovo la tua passione per una certa world music, in questo caso qualche aroma cubano.

Non proprio ma un fondo di verita c’è. In questo periodo sta circolando parecchia musica cubana, cose tipo Buena Vista Social Club, e io mi sono innamorato del loro modo di suonare e, soprattutto, registrare le congas. Anche se hai le migliori percussioni del mondo è quasi impossibile riuscire a ottenere quel tipo di suono. Devi cercare di suonare lentamente ma con forza mentre viene più naturale un suono molto soft. Questa è la prima volta che riesco ad avere delle percussioni che suonano circa come quelle cubane perchè è difficile anche capire come posizionare i microfoni durante la registrazione. Immagino che sia un loro segreto.

Cosa mi dici del ritorno di Tymon Dogg?

Sono felice che sia di nuovo con me, dopo “Sandinista”. Lui mi ha insegnato a suonare la chitarra nel 1971, era un musicista di strada, un busker, e io facevo la colletta per lui. Oltre a suonare nella metropolitana di Londra, abbiamo girato per l’Europa, in Francia, Olanda, Belgio. Dopo tanti anni ci siamo incontrati per caso e così gli ho chiesto di suonare sul disco.

Cosa pensi dell’eredità che hanno lasciato i Clash?

Ovviamente sono molto orgoglioso. Mi sono sempre chiesto come avremmo reagito se avessimo saputo allora di essere così importanti per molta gente e che in futuro saremmo stati considerati una delle più importanti rock’n’roll bands di sempre. All’epoca nessuno di noi aveva questa sensazione.

Come è cambiato il music business in questi anni?

Certamente è peggiorato se penso anche alla mia grande difficoltà nel trovare un’etichetta disposta a pubblicare i miei dischi. Una volta se il tuo album di debutto non vendeva, avevi comunque una seconda o una terza possibilità mentre oggi se non fai il botto al primo colpo sei scaricato in mezzo alla strada. Non penso che i discografici di oggi riconoscerebbero un nuovo Frank Sinatra nemmeno se lo avessero davanti e questa è una situazione che ti rende nervoso come musicista. Io devo dire grazie alla Hellcat perchè ha dimostrato di credere in me, ha dimostrato di essere una punk rock label nel vero senso della parola. Tornando alla domanda di prima, quella sull’eredità dei Clash, ti posso dire che all’industria musicale non gliene frega un cazzo della tua storia o di chi sei: se non vendi, non sei nessuno.

E cosa pensa Joe Strummer del punk nel 2001?

Io devo tutto al punk, tutta la mia vita. Nel 1977 mi ha salvato dal diventare un chitarrista di qualche cover band che suona nei bar e che deve schivare le bottiglie di birra mentre nel 2001 il punk mi ha salvato nuovamente permettendomi di incidere dischi per un’etichetta di successo, che mi stima come musicista.

giovedì 12 agosto 2010

io e joey

"Non abbiamo nemmeno una fotografia di noi due assieme", mi fa Joey prima di salire sul tour bus e ripartire per Friburgo a tarda notte. "Dai, la prossima volta la facciamo", gli dico io, ma in effetti ci sarebbe stata bene qui sopra al posto di questa orrenda e sfocata che gli ho fatto mentre stava suonando.

Alle 3 del pomeriggio mi arriva un sms: "Sono a Milano nello stesso hotel dell'altra volta. Mi raggiungi? Sono annoiato". Lo raggiungo poco dopo, eravamo già più o meno d'accordo che ci saremmo visti senza cene o casini di mezzo, giusto per metterci in pari con mesi e mesi di cose da raccontarsi. Andiamo al Magnolia per il soundcheck, poi torniamo al suo albergo e cominciamo a parlare a ruota libera, di cazzi nostri ma pure di altri, di musica, cinema, libri. Sotto, la fredda cronaca (quella pubblicabile almeno), per come me la ricordo e divisa per argomenti (punk):

RAMONES
J: "Sono il mio gruppo preferito di sempre, ho suonato al museo dei Ramones che c'è a Berlino e mi sono emozionato".
S: "Sono uno dei miei gruppi preferiti di sempre, ma una volta se vedevi un tizio con una maglietta dei Ramones correvi a parlargli, ora ti giri dall'altra parte e lo eviti".
J: "Sono stato ospite alla trasmissione radio di Marky Ramone ed è stato tristissimo. Lui non c'era, al suo posto un tizio che leggeva le domande della mia intervista, che poi lo stesso Marky avrebbe doppiato in seguito".
S: "Quindi non sai se davvero ha la parrucca".
J: "Mi stupirei non l'avesse, ha lo stesso taglio e colore di capelli di 'End of the century'"!

BAD RELIGION
J: " Sono una delle band più assurde con cui stare in tour. Non si parlano da anni, proprio come Joey e Johnny Ramone all'epoca".
S: "Hanno la miglior coppia di chitarristi hardcore in circolazione però, Greg Hetson e Brian Baker".
J: "È vero, ma è stranissimo vederli in tour. Graffin non ha praticamente contatti con nessuno, è totalmente uncool, Hetson passa tutto il tempo a cercare ragazze, Baker è intrattabile ma a me piace moltissimo, io e lui andiamo d'accordo, Jay Bentley e Brooks Wackerman sono i due più gentili e simpatici".
S: "Anni fa intervistai proprio Graffin e Baker e mi fecero un bell'effetto invece".
J: "Forse gli eri simpatico tu! Sai che Baker ha suonato per un anno circa coi Gimme Gimmes? Non è mai riuscito a imparare un pezzo, giuro, aveva sempre il leggìo con gli spartiti, Mike non lo sopportava. Cazzo, come fai a non imparare i pezzi dei Gimme Gimmies, sei Brian Baker! Quando se ne andò, arrivò Warren dei Vandals, ma pure lui era troppo impegnato per suonare con noi".
S: "Quindi i Bad Religion si odiano".
J: "Non so, ma sicuramente non si parlano e non si frequentano, assieme fanno solo dischi e concerti".

JELLO BIAFRA
J: "Per un certo periodo, Biafra girava spesso con i Gimme Gimmes perché è amico di Fat Mike. Era spesso impegnato nei suoi tour di spoken word e gli rifilavano sempre dei SUV per portarlo in giro durante le date e lui andava in paranoia: ' Come cazzo faccio a parlare dell'Iraq e dello spreco di petrolio quando giro con un SUV che consuma decine di litri di benzina?'. Il suo autista personale, quando è in giro, è un nostro amico che si chiama Johnny Puke e fa la migliore interpretazione che abbia mai sentito di Biafra. È identico, cazzo vorrei fosse qui per fartela sentire... Hai presente come parla, no? Sembra una vecchia signora snob a volte e Johnny lo fa uguale".
S: "L'ho conosciuto al Leonkavallo ed era il periodo di massimo scazzo con gli ex Dead Kennedys, quindi non si riusciva a parlare d'altro che della causa legale e di quanto fossero stronzi i suoi ex amici".
J: " Sbaglio o hanno suonato di nuovo assieme?"
S: "Non credo, però Biafra fa pezzi dei DK con il suo nuovo gruppo, i Guantanamo School Of Medicine".

RKL
J: "Tutti i membri dei Lagwagon, a parte me, hanno suonato per un certo periodo nei Rich Kids On LSD".
S: "Io li adoravo! Mi ricordo un loro concerto a inizio anni Novanta a Ivrea, in una scuola materna, credo. Devastante. E poi a un certo punto Jason, il cantante, si è tirato giù i pantaloni e le mutande per far vedere il tatuaggio che aveva sul culo, quello con scritto 'Eat shit'. Genio...".
J: "Quando avevo 15 anni cantavo in un gruppo del giro di Oxnard, gli Urban Assault (non quelli più famosi ovviamente) e ho suonato assieme a tutti quanti: Agression, RKL, Dr. Know, Scared Straight... Siamo anche su una compilation della Mystic con un pezzo".

MIKE WATT
J: "L'hai visto il documentario sui Minutemen?"
S: "'We jam econo'? Sì, è bellissimo te lo consiglio".
J: "Lo devo guardare, adoro Mike Watt".
S: "Una volta lo vidi a Torino con i fIREHOSE e passò la serata a parlare di se stesso in terza persona, per cui non capii nemmeno una parola di quello mi disse. Sul basso aveva scritto 'Mike Watt supports Madonna' e aveva attaccato una foto di sua moglie Kira. Però fecero una cover di 'Sophisticated bitch' dei Public Enemy!".

mercoledì 11 agosto 2010

kossiga con la kappa


Quando sarà la sua ora, pare tra non molto, prima di partire coi coccodrilli, le rivalutazioni, le frasi di circostanza, i discorsi tipo "sì, ma in fondo taldeitali è peggio", il solito buonismo d'accatto e via di questo passo, ricordatevi di queste perle uscite dalla sua bocca. L'ultimo tassello di una carriera passata a mentire, depistare e rovinare questo orrendo paese in cui ci tocca vivere: "In primo luogo lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito... Lasciar fare gli universitari, ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì".

domenica 8 agosto 2010

4 ottobre 1977

Grazie al prezioso lavoro dell'amico Alex di Roma, oggi posso postare il celeberrimo servizio di Odeon sul punk (qui trovate la prima parte, su YouTube le altre tre), andato in onda nel 1977 sulla RAI. Lo rivedo oggi dopo quasi 33 anni e provo lo stesso entusiasmo infantile di allora, la stessa sensazione di sorpresa. A differenza di quando ero bambino, però, realizzo di avere sempre avuto ragione. Quello era il futuro e l'avevo capito in poco meno di un quarto d'ora...
E sentire l'autore del servizio che dice "questi sono gli Heartbreakers, gli Spaccacuore, una formazione a suo modo sofisticata, per ragazzi di 20/25 anni", mi fa andare a letto felice. Io ne compio 43 tra poco e gli Spaccacuore sono ancora una delle mie formazioni preferite in assoluto!


giovedì 5 agosto 2010

wired e uno dei devo

ah, mi stavo quasi dimenticando! In uno dei primi post, avevo parlato di un'intera giornata caratterizzata dai Devo di cui vi avrei riferito. Ecco, ora che è uscito Wired di agosto posso farlo. Guardate qui e capirete tutto, poi magari comprate il giornale se vi interessa, lì troverete anche le foto.

buone vacanze


No, non parto, ma molti amici sì. Forse anche io, ma alla fine della prossima settimana. Vi tengo informati comunque. Intanto, per chi si sposta in aereo, ecco il blog giusto. Semplicemente squisito...

mercoledì 4 agosto 2010

cars

Quando un pezzo è bello, lo è anche suonato con dei clacson. Garantiscono Gary Numan e le batterie della Die Hard.

martedì 3 agosto 2010

life is good



Succede che stamattina passo per caso al Libraccio e per una novantina di euri mi porto a casa le seguenti cose:
ROBERT FRIPP Exposure
ROBERT FRIPP God save the Queen
SUGARCUBES Life's too good
TELEPHONE Au coeur de la nuit
THE SOUND All fall down
JOE JACKSON Look sharp!
EUGENIO FINARDI Diesel
LOU REED Transformer
THE JIM CARROLL BAND Catholic boy
MARVIN GAYE Midnight love
GRACE JONES Slave to the rhythm
ELVIS COSTELLO Punch the clock
MALCOLM MCLAREN Duck rock
AA.VV. First edition
THE ROLLING STONES Love you live
Adoro il profumo di vinile appena sveglio...
Al bottino aggiungete anche una copia del mio libro, "100 dischi ideali per capire il punk", comprata nuova ma a metà prezzo. Lo so che fa ridere, ma quando ne vedo una in giro non resisto e la prendo, anche perché ne possiedo solo una, la mia personale, e ogni tanto mi capita di volerlo regalare a qualcuno/a meritevole. Come tutte le volte, vado alla cassa, consegno il libro e spero che la cassiera non si accorga che sulla mia carta di credito/bancomat/carta fedeltà del Libraccio c'è lo stesso nome scritto sulla copertina. Lo so, è un timore stupido e quasi infondato, ma una volta è successo e io mi sono imbarazzato quasi come se l'avessi rubato invece che scritto e pure comprato pagandolo di tasca mia. Per cui, quando sarà il vostro turno di riceverlo, saprete già come è andata.

i don't care about you

È una di quelle notizie che corre il rischio di passare inosservata. Invece la scomparsa di Derf Scratch - vero nome Frederick Milner -, straordinario bassista dei Fear, autentica leggenda del punk losangelino, è l'ennesima pessima notizia di un anno che rischia di diventare uno dei peggiori, almeno a livello "funerario". Una malattia incurabile non ben definita si è portata via un altro dei protagonisti (minori forse, ma sempre protagonista rimane) di una stagione musicale irripetibile, quella dell'hardcore a stelle e strisce. I Fear, per chi non lo sapesse, erano un gruppo molto particolare, guidato da un pessimo elemento come Lee Ving e su cui sono sempre circolate le peggio voci: violenti, razzisti, ubriaconi, finti punk. La leggenda che li voleva "in it for the money" (e quanti non lo erano, in realtà?) li ha accompagnati per tutta la carriera, alimentata anche da dichiarazioni degli stessi protagonisti che spesso avevano preso le distanze dalla musica punk e avevano in qualche modo avallato la tesi. Quel che è certo è che, almeno all'epoca, di soldi col punk non se ne facevano proprio e dubito fortemente che i Fear si siano arricchiti suonando canzoni "commerciali" come "I don't care about you" e "I love livin' in the city", il cui testo "commerciale" recitava: "My house smells just like a zoo, It's chock full of shit and puke , Cockroaches on the walls, Crabs are crawling on my balls, oh well I'm so clean cut, and I just want to fuck some slut". Perfetto per le radio, vero?
Veniamo ai motivi per cui invece i Fear sono passati alla leggenda, almeno alla mia, che di quella ufficiale ce ne siamo sempre fregati. Innanzitutto hanno inciso un disco capolavoro, "The record", ricco di classici come i due pezzi citati in precedenza e altri che si chiamano "New York's alright if you like saxophones" (ah che belli i tempi delle rivalità cittadine...), "Beef baloney", "Let's have a war". Non erano una band politicizzata, credo lo abbiate capito, ma rappresentavano la corrente più nichilista e "fun" del punk, quella alimentata da birra, droga e violenza, ma osteggiata dai fans del politically correct a tutti i costi. Disco ovviamente da recuperare (magari assieme al film documentario "The decline of western civilization" di Penelope Spheeris in cui i Nostri appaiono), fondamentale per capire quell'epoca d'oro e perché fossero il gruppo punk preferito di John Belushi. Il comico di "Animal house", dopo la sbandata blues diventò un fanatico genuino del punk rock e dell'hardcore, partecipando a concerti, supportando la scena, trascinandosi dietro i Fear in qualunque occasione. La più clamorosa - http://virb.com/bellyache/videos/1733702 - fu quando li invitò a suonare dal vivo al Saturday Night Live, la trasmissione di cui era uno dei protagonisti assoluti. Assieme ai Fear, già sinonimo di disastro, si presentò anche una crew di punk di Washington D.C., capeggiata da Ian MacKaye, futuro Minor Threat e Fugazi, all'epoca giovane ribelle nel pieno della fase distruttiva. L'esibizione dei Fear fu caratterizzata da una violenza incredibile, con migliaia di dollari di danni allo studio e all'attrezzatura e con un Belushi che faceva slam dancing con la stessa furia dei ragazzini. Manco a dirlo, la diretta tv fu tagliata, al comico fecero un culo così e il punk fu bandito per anni dalle trasmissioni televisive. Ciao Derf, ci mancherai!