martedì 26 aprile 2011

oh bondage up yours!


Con la scomparsa di Poly Styrene se ne va un altro pezzo della mia giovinezza, una delle cantanti più bizzarre e personali della scena punk rock londinese. Ho avuto la fortuna di intervistarla qualche anno fa, come potete leggere poco sotto. Ciao Poly!

Come ti sei avvicinata alla musica? Se non sbaglio avevi anche inciso un singolo pop prima di formare gli X-Ray Spex...

Poly Styrene: Sono sempre stata interessata alla musica, fin da quando ero una bambina alle elementari. La prima volta che provai a cantare fu in occasione di un saggio scolastico, in cui con un’amica facemmo un paio di cover di Lulu. Poco dopo mi ritrovai a studiare arte drammatica alla Oval House e a seguire delle lezioni di canto alla Wigmore Hall di Londra, poi mi trasferii a Bath seguendo una jazz band che si chiamava Johnny Rondo Condo e, infine, ritornai a Londra. Mi fu offerto di incidere un singolo con il mio vero nome, Mari Elliott, ma la svolta arrivò il giorno del mio diciottesimo compleanno, quando vidi un gruppo all’epoca sconosciuto, i Sex Pistols, suonare al Ballroom di Hastings Pier. Fu lì che decisi di formare gli X-Ray Spex...

Siccome il punk non era ancora esploso, quali erano le tue influenze a quell’epoca?

P.S.: A livello di influenze femminili, direi Joni Mitchell, Carole King, Carly Simon, Janis Joplin, Tina Turner, Grace Slick e Melanie: erano artiste credibili, spesso scrivevano i propri pezzi. Amavo anche il suono della Motown e cose come Diana Ross e le Supremes, ma l’ispirazione primaria, in fatto di carriera musicale, arrivava dalle cantanti che ti ho citato prima. Uh, adesso che mi viene in mente, un’influenza decisiva fu una cantante che si chiamava Linda Lewis: la vidi suonare all’Oval Pop Festival in mezzo a un sacco di gruppi progressive e lei li spazzò via con la sua bellissima voce.

Parliamo dell’avvento del punk. Cosa ti viene in mente, così a bruciapelo?

P.S.: Era eccitante, soprattutto perché ne facevo parte anche io, ma c’era parecchio caos. Ascoltavo soprattutto la mia musica e l’unico album che comprai all’epoca fu quello dei Pistols, che ascoltai ininterrottamente per una settimana, prima di tornare ai miei classici abituali: “Exodus” di Bob Marley, “Black star liner” di King Tapper Zukie e “All on the rock” dei Cimmerons. Ero quasi sempre in un paradiso reggae...

Come hai trovato gli elementi per formare la band?

P.S.: È risaputo che piazzai un annuncio su Melody Maker e NME in cerca di giovani punk con cui suonare. I primi a presentarsi all’audizione furono Lora, Paul e Jak. Lora rimase con noi per cinque date e suonò sul primo singolo. Ci sono un sacco di leggende attorno a lei e al fatto che io l’abbia buttata fuori dal gruppo, ma sono miti che voglio sfatare e che credo abbia messo in giro lei stessa. Era una ragazzina a quei tempi, affascinata dalle droghe e dall’alcol che circolavano liberamente all’interno del gruppo. Il nostro manager parlò coi suoi genitori e decise che era meglio che Lora tornasse a scuola, con la promessa che l’avrebbe aiutata a formare una band una volta diplomata, cosa che successe puntualmente (si tratta degli Essential Logic - nda). Comunque sia, il fatto di aver suonato negli X-Ray Spex le diede un minimo di fama e l’aiutò a portare avanti i suoi progetti personali. Eravamo un gruppo che lavorava duramente, con un’etica professionale rigida e con parecchi impegni e Lora non avrebbe potuto mantenerli. Così trovammo un altro sassofonista e andammo avanti, diventando molto uniti e creando una forte amicizia. Tornando a Lora, sono felice che non si sia trasformata in un martire del rock’n’roll come Sid Vicious e questo grazie a Falcon Stuart, il manager. Dopo essere diventata Hare Krishna si è ripulita, lasciandosi alle spalle un brutto periodo...

Uno dei meriti del punk rock è stato quello di aver parificato l’importanza di uomini e donne all’interno della scena, al contrario di una concezione diffusa di rock come musica fallocentrica. Una sorta di democrazia musicale, in un certo senso...

P.S.: Non sarei così radicale, anche perché le donne hanno spesso avuto un ruolo fondamentale nello spettacolo, a Hollywood e nel cinema per esempio. L’industria musicale ha creato questo mito che le donne non hanno il fisico per reggere lo stress di un tour massacrante, in parte magari anche giustificato, ma io con gli X-Ray Spex avevo la stessa forza dei miei compagni di band. Ora non riuscirei più a farlo, ma allora non c’erano distinzioni. Non è che non esistesse una sorta di democrazia nella scena punk, era soprattutto la conseguenza della nostra educazione di giovani ragazze cresciute nell’Inghilterra del dopoguerra. Quando fondai gli X-Ray Spex presi Lora nella band perché mi piaceva a livello personale e perché fu l’unica sassofonista a presentarsi all’audizione. Semplicemente per questi motivi, non perché volessi a tutti i costi una ragazza...

Gli X-Ray Spex si differenziarono immediatamente dal resto delle punk band. Avevano un suono particolare, il sax, la tua voce strillata...

P.S.: Credo che l’originalità del gruppo stesse soprattutto nei testi. Per quanto riguarda la musica, la componevamo io e Jak, il chitarrista, e poi la arrangiavamo con gli altri. Comunque hai ragione, avevamo introdotto il sax, uno strumento per nulla punk, ma ci piaceva l’idea di essere diversi da tutti gli altri e, alla fine, fu un’idea brillante. Personalmente, non amo il mio modo di cantare, era troppo strillato. Era necessario che fosse così per quel tipo di musica, ma preferisco il suono della mia voce nei miei dischi più recenti.

Il vostro primo singolo, “Oh bondage! Up yours”, è considerato a ragione uno dei classici del punk rock. Come è nato quel pezzo?

P.S.: Mi ricordo che ero molto eccitata quando composi quel brano. Lo registrai assieme a Gary Moore dei Thin Lizzy come demo, prima di proporlo al resto del gruppo, ma mi accorsi subito che era fantastico e aveva una marcia in più. Era un concentrato di energia e, in pratica, ebbe un ruolo centrale nella parabola degli Spex. E poi Jak, Lora e Paul aggiunsero un tocco personale a “Oh bondage! Up yours”, cosa che lo rese uno dei nostri preferiti dal vivo. Sembra scontato dirlo, ma lo composi in pochissimo tempo e piuttosto facilmente.

La prima volta che lo ascoltai fu nella compilation “Live at the Roxy”, registrata nel tempio del punk londinese. Che cosa ricordi di quel club?

P.S.: La prima volta che ci andai fu con Falcon Stuart, il nostro manager, e il giornalista Jon Savage (autore di “England’s dreaming”, splendido libro sull’epopea punk del 1977 - nda). Era una serata di audizioni e, in pratica, tutti i gruppi punk di Londra o quasi erano lì per suonare e ottenere un ingaggio: Generation X, Damned, Johnny Moped, Slits, Vibrators, Buzzcocks, Adverts. Poi c’erano un sacco di altri personaggi come Mark Perry o Chrissie Hynde e parecchi ragazzi che assistevano alle esibizioni. Mentre ero in bagno - mi ricordo che in angolo era seduta Susan, una commessa del Seditionaries, che si faceva dei tagli sulle braccia con un rasoio - Falcon e Jon parlarono con Andy e Susan, i due proprietari del Roxy, e ci fissarono una data per la settimana successiva. Succedeva davvero così, c’era un movimento pazzesco e tutto andava a grande velocità. Il Roxy era un posto difficile in cui suonare, il pubblico era esigente e brutale - finivi sempre coperto di sputi e con qualche ammaccatura -, ma se eri in grado di conquistarlo e farlo pogare, allora potevi esibirti ovunque senza problemi.

Un altro dei tratti salienti degli X-Ray Spex era il look. Tu avevi sempre dei vestiti incredibili...

P.S.: Il primo lavoro che feci dopo essermene andata da scuola a 15 anni fu come assistente del reponsabile acquisti e come indossatrice per una catena di negozi di moda inglesi. Quando formai gli X-Ray Spex non ero una sprovveduta, quindi, avevo le idee molto chiare sul look da adottare e spesso mi facevo i vestiti a mano da sola assieme a un’amica, Sophia Horgan. In pratica, divenni la stilista della band, realizzando i vestiti anche per i ragazzi e questo ci differenziava dai Pistols per esempio, che andavano in giro con la roba costosissima di Vivienne Westwood e del Seditionaries. Usavo materiale comprato nei mercatini e lo trasformavo in qualcosa di originale, che durava lo spazio di un concerto o poco più. Era roba usa e getta, ho sempre pensato che il punk significasse estremismo anche a livello di look e moda. Non c’erano regole e questa era la cosa più interessante, oltre che un gran divertimento.

Quale fu la reazione del pubblico agli X-Ray Spex, visto che abbiamo parlato delle vostre differenze rispetto alla punk band classica?

P.S.: Ci costruimmo un seguito di fan abbastanza rapidamente, grazie anche al supporto della carta stampata che ci seguì fin dagli inizi. In pratica, non abbiamo mai suonato di supporto a nessuno e quindi i ragazzi nel pubblico venivano a sentire noi. Qualche volta la stampa musicale ci dava contro, ma questo non faceva che aumentare la nostra visibilità. A questo aggiungi il fatto che il punk era considerato socialmente pericoloso e quindi esercitava un grande fascino sui giovani di quegli anni.

Il vostro album, “Germ free adolescents” uscì solo nel novembre del 1978, quando il punk era in declino e molti dei gruppi cardine si erano sciolti o avevano mutato il proprio suono. Per quale motivo non lo pubblicaste prima?

P.S.: Gli Spex si costruirono un grande seguito grazie alle esibizioni live e senza il reale supporto di un’etichetta discografica. Il disco uscì così tardi perché volevamo che rispecchiasse la nostra crescita e che fosse suonato nel miglior modo possibile. Così lo testammo dal vivo un’infinità di volte prima di registrarlo, ma penso che ancora oggi possa essere considerato un classico del punk rock. Lo dimostra anche il fatto che lo si può trovare in qualunque megastore e che è stato spesso ristampato nel corso degli anni. Sono fiera di quell’album...

Immagino che ti piaccia anche oggi allora...

P.S.: Mi piacerebbe molto poterlo risuonare, con uno stile più contemporaneo magari, solo per divertimento. Sarebbe carino, non trovi? Una volta ne ho parlato con Paul Dean, il bassista degli Spex, e anche lui era d’accordo. Siccome Jak Airport purtroppo non è più qui con noi, chiederei a Brian James dei Damned di suonare con noi. Ho appena registrato un duetto con lui per il suo album solista. In definitiva, “Germ free adolescents” mi piace molto anche se la mia performance vocale non è il massimo...

Prima parlavi dei testi. Come li componevi?

P.S.: Cercavo di usare uno stile di scrittura particolare per esprimere dei concetti post-moderni che, probabilmente, hanno più importanza nel 2005 di quanta ne avessero allora. In fondo erano delle liriche molto naïf...

Il vostro scioglimento è avvenuto poco dopo l’uscita dell’album. Quali furono le cause?

P.S.: Lo scioglimento avvenne dopo l’uscita di “Talk in toy town”, il singolo estratto dal mio album solista, “Translucence”. L’ultimo 45 giri degli Spex, invece, fu “Highly inflammable”. In pratica lo split fu orchestrato da Falcon, ma a quel punto il nostro suono era davvero cambiato troppo, specie quello di “Translucence”. Avvenne, di fatto, dopo un concerto a Parigi. Dopodiché, Paul e Jak fecero un singolo prima di formare i Classic Nouveaux, un gruppo new romantic che ebbe un discreto successo. Anche Rudi e BP fecero qualcosa assieme ma non ricordo bene cosa... Lo scioglimento, comunque, non avvenne per litigi, semplicemente era ora di cambiare, ci stavano evolvendo e io ero molto stressata dalle continue date live. Anche oggi preferisco di gran lunga sperimentare in studio che suonare dal vivo...

Che cosa hai fatto dopo la fine degli Spex?

P.S.: Sono diventata una compositrice piuttosto che una semplice cantante, motivo per cui la stampa non si è certo occupata di me in questi anni. Mi interessa la pubblicità solo se collegata a qualche progetto che porto avanti e non per finire nelle rubriche di gossip delle riviste musicali. Mi applico seriamente al mio lavoro, anche grazie a un’educazione krishna che mi ha aiutato nei momenti di difficoltà. Davvero, non sono un personaggio così interessante per i media! Poi, ho cresciuto mia figlia Celeste, anche lei è una cantante e scrittrice molto dotata, abita a Madrid, insegna inglese e sta per completare i suoi studi universitari. Sto inoltre creando un’etichetta discografica, Fair Music, per aiutare musicisti che mi piacciono, lavoro talvolta nel mondo del cinema ad alcuni progetti e porto avanti il mio sito www.x-rayspex.com. Sono molto occupata, come vedi, ma nella più completa indipendenza. Preferisco essere libera e completare i miei lavori con calma.

Hai anche pubblicato un album di recente, “Flower aeroplane”...

P.S.: Non è proprio un disco nuovo, contiene otto pezzi che non erano mai usciti in precedenza e cinque estratti da “Translucence”. Non saprei come descriverli, una specie di musica trascendentale e chill out con un retrogusto metal. Presto lo metterò online sul sito così potrai sentirlo, ma si trova già nei negozi o in vendita da me.

Il tuo sito ti permette anche di comunicare con un sacco di gente, immagino. Io ti ho contattata proprio grazie a quello. Ti scrivono ancora in molti?

P.S.: Sono felice di mantenere i rapporti col mondo esterno grazie al sito, mi scrive un sacco di gente carina e simpatica. Il merito è tutto di mia figlia e di David McConville, un amico stilista, che mi hanno spinta ad aprire il sito per raccontare in maniera corretta la storia degli X-Ray Spex, vista la quantità di leggende inventate che circolavano su di noi. Internet ha rivoluzionato il mondo della comunicazione e permette a gente come me di mantenere un controllo effettivo sul proprio lavoro.

A questo punto ti manca solo di scrivere un libro...

P.S.: In effetti è una cosa a cui ho pensato spesso, ma intanto online ho cominciato a scrivere il mio diario degli anni Settanta. Purtroppo è una cosa che porta via moltissimo tempo. So che c’era anche qualcuno interessato a farci un film o qualcosa del genere ma al momento non sono in grado di dirti di più. Staremo a vedere...

Hai qualche rimpianto?

P.S.: No, assolutamente, prendo tutto con molta filosofia e credo che ogni cosa succeda per una ragione ben specifica. Si può imparare molto sia dalle cose negative che da quelle positive.

Sei ancora in contatto con i tuoi ex compagni di band?

P.S.: Ogni tanto sento Paul Dean, anche per via del sito della band, mentre ho perso ogni contatto con Lora. Tempo fa cominciò a mandarmi delle lettere minatorie perché secondo lei le avevamo fregato delle royalties di un pezzo, “Conscious consumer”. Inutile dirti che le diedi esattamente un terzo dei soldi, gli stessi che prendemmo io e Paul. Evidentemente a certa gente non va bene nulla... BP e Rudi sono praticamente scomparsi e non so proprio dove siano, mentre sia Jak Airport che Falcon Stuart sono morti pochi anni fa.

Per chiudere, dimmi i tuoi cinque pezzi punk preferiti dell’epoca.

P.S.: Direi “White riot” dei Clash, “If the kids are united” degli Sham 69, “Right to work” dei Chelsea, “Money talks” dei Rubella Ballet e “Art-i-ficial” degli X-Ray Spex.

sabato 9 aprile 2011

la grande oliva


Non sono nato a Milano e ci abito da un tempo relativamente breve, poco più di dieci anni, ho pure un certificato di residenza che mi consentirà, tra qualche settimana, di contribuire a cacciare fuori dai coglioni il peggior sindaco che questa città abbia mai avuto da che mi ricordi io (e la lista di imbroglioni è davvero lunga eh...). Tranquilli, non è un post sulla campagna elettorale, per quella bastano gli agghiaccianti manifesti che mi scorrono davanti agli occhi tutti i giorni mentre giro in bicicletta, ma su un libro che parla del posto in cui abito, "Muori Milano muori!" di Gianni Miraglia. La cosa strana è che lo sto leggendo, quindi non ho tutti gli elementi per farne una recensione corretta - un po' come parlare di un disco dopo aver sentito solo il lato A -, ma mi va di raccontarvelo e consigliarvelo lo stesso. Principalmente perché, sebbene sia ambientato di qualche anno nel futuro (poco prima dell'apertura dell'Expo 2015, con un Berlusconi appena morto), mi racconta la Milano del presente, quella dell'inquinamento a livelli record ma che costruisce il giardino verticale (e come si visiterà, con le corde da arrampicata?), quella della disoccupazione sempre più alta, della piazza da intitolare a Craxi, dell'immigrazione selvaggia e senza nessun tentativo di integrazione, quella della polizia ovunque e delle ronde e dei manganelli, dei locali chiusi perché è meglio non rompere le palle e stare a casa, della casbah di Via Padova, dei grandi manager e dei designer. Insomma, la Milano da bere anni Ottanta che risorge, la Grande Oliva, la città dell'aperitivo, che si avvicina a enormi falcate al suo appuntamento più importante, 'sto cazzo di Expo 2015, travolgendo tutto quello che trova sul suo cammino, perché tutto è sacrificabile.
L'odore di merda che è una costante del libro di Miraglia e che caratterizza la storia quasi in ogni momento - colpa di un guasto alle fognature, ma pure della quantità di concime usato per le nuove aree verdi e del caldo di uno strano aprile - me lo sento anche io nelle narici tutti i giorni, mi perseguita da pagina uno e non capisco se è un buon segno oppure no. La lettura però, nonostante un senso d'ansia di fondo che me la rende faticosa (e questo è un ottimo segno), scorre abbastanza rapida e regala momenti di grande piacere. Addirittura godimento personale quando l'autore scopre ulteriormente le carte - lo aveva già fatto col primo romanzo, intitolato "Six pack", come il pezzo dei Black Flag. A un certo punto, uno dei personaggi, l'ex-assicuratore impazzito che vende merce usata/rubata dietro alla stazione, ricorda al protagonista alcuni amici americani licenziati a causa del fallimento della Bevis Co. e snocciola cinque nomi: Jonathan Richman, Terry Hall, Richard Lloyd, James Osterberg e Johnny Genzale. Ovvero: Modern Lovers, Specials, Television, Iggy Pop e Johnny Thunders, nell'ordine. Che questa lista, poi, si trovi (casualmente?) tra le pagine 76 e 77, non fa che allargare il mio sorriso. Vado a leggermi le restanti 100 pagine, poi magari vi racconto il resto...

venerdì 8 aprile 2011

beastie boys


La storia dovreste conoscerla tutti: "Hot Sauce Committee pt.1" doveva uscire nel 2009, poi rimandato a data da destinarsi a causa della malattia di MCA, e finalmente annunciato per il mese prossimo. La "pt.1" è diventata "pt.2" ma poco importa, le differenze non dovrebbero essere sostanziali, giusto alcuni piccoli accorgimenti. Tipo che "Bundt Cake" non è più in scaletta, sostituita da "Make Some Noise", primo singolo annunciato di cui trovato uno spassoso trailer anche in internet. E la tracklist ha subito qualche rivoluzione qua e là, difatti pare più corta di tre canzoni...
Tutto questo perché ieri, sistemando il delirio di casa in cui vivo, ho ritrovato una vecchia Moleskine in cui avevo annotato le mie impressioni sull'album dopo essere stato a Londra ad ascoltarlo - e a intervistare i Beastie Boys, come da articolo uscito sull'ultimo numero di Groove. Mi ricordo la perquisizione stile "aeroporto dopo attacco terroristico", compresa di metal detector e iPod manovrato direttamente da un addetto. Sfogliando le pagine dell'agendina riscopro oggi che "OK" ha un sapore quasi post-punk, "Too Many Rappers" ospita Nas e si lamenta del fatto che nella scena hip hop ci siano troppi rapper e pochi MC, che "Lee Majors Come Again" è un pezzo rap con una base punk ricca di synth, che "Here's A Little Something For Ya" e "Crazy Ass Shit" sono classici pezzi alla Beastie Boys. Pochissimi altri appunti sull'album, un paio di asterischi piazzati dopo due titoli che chissà mai cosa volevano dire e qualche spunto da discutere coi tre musicisti poco dopo, ovviamente disatteso dalla loro adorabile cazzonaggine. Ai Beastie Boys regalo, come benvenuto, una copia del libro con le ristampe della fanzine T.V.O.R. e quindi, con loro in preda a eccitazione, passiamo dieci minuti buoni a parlare di hardcore e "old school". Nella mezzora totale a mia disposizione troveranno il tempo di fare freestyle invece che rispondere alle domande, chiedermi di spiegargli alcuni modi di dire tipicamente italiani come "stai all'occhio" e, ovviamente, fare un paio di foto ricordo.

mercoledì 6 aprile 2011

la prima volta


Qualche anno fa ormai, se non ricordo male per il numero 50 di Rock Sound, avevamo organizzato una specie di questionario per redattori e collaboratori, con tanto di fotografie e risposte da spiritosoni. Una delle domande riguardava il primo disco comprato in assoluto, una di quelle cose che non si dovrebbe scordare mai. Nel mio caso, per esempio, si tratta di "(I'm) Stranded", LP d'esordio degli australiani Saints, uno dei massimi capolavori del punk rock, imprescindibile in qualunque discografia che si rispetti. Non mi ricordo il motivo per cui, una volta entrato da Valerio, il negozio di dischi in centro a Biella, decisi di comprare proprio quello. A dieci anni, e senza nessuna cultura musicale, ero solo intenzionato a comprare un disco punk, come quelli che avevo visto in tv nel servizio di Odeon. Sono certo che la mitica "Punk collection", compilation venduta a "3.500 lire, special punk price", come recitava la copertina (e di cui parlerò più diffusamente in uno dei prossimi post), mi stava occhieggiando dagli scaffali dedicati alla nuova musica, ma io mi lasciai convincere dalla foto meno punk in assoluto: quattro ragazzi vestiti tutto sommato normalmente (il bassista capellone, addirittura con camicia e cravatta nera da impiegato) e che non promettevano chissà che. E così "(I'm) stranded" è finito tra le grinfie della mia fonovaligia, ereditata da mio zio e con una qualità audio terribile, e ha dato inizio a una passione per i Saints che dura ancora oggi senza il minimo cedimento. Poche cose mi sembrano più belle di quella canzone e di quell'album, e ciclicamente la copia arata di quel disco ritorna sul piatto a tenermi compagnia. Oggi per esempio, sebbene in versione mp3 e sul computer in ufficio.