lunedì 29 ottobre 2012

A 900 miglia da casa

Il primo a dare la notizia della sua scomparsa pare sia stato Gilles Peterson, ma a questo punto ha davvero poca importanza, se non per la tristezza insita nell'annuncio. Terry Callier, 67 anni, è stato trovato morto a casa sua. Non ci serve sapere altro.

Ammetto con grande candore di aver passato gran parte della mia vita senza sapere nulla di lui e della sua musica e di essermi accorto della sua voce meravigliosa solamente quando ha accettato di collaborare con i Massive Attack per un brano, "Live With Me": un pezzo incredibile, l'ultimo davvero degno di nota composto dal gruppo di Bristol. L'unico lato positivo dell'averlo scoperto tardi è che, una volta tanto, mi sono trovato con un mondo intero da esplorare, dischi da recuperare, canzoni da ascoltare per la prima volta. La scelta immediata è caduta sull'esordio, "The New Folk Sound Of Terry Callier" - se si comincia da zero, meglio farlo dall'inizio, no? - e tutto il primo ascolto l'ho passato a chiedermi come fosse stato possibile non essermi mai accorto di un disco del genere. Folk quasi classico, come può esserlo nel 1964, ma cantato da uno con una voce soul che poteva rivaleggiare con quella di Curtis Mayfield, che peraltro era suo amico d'infanzia, e che era innamorato di John Coltrane. Scordatevi Bob Dylan o Joan Baez, siamo su un pianeta differente e parallelo. Uno in cui, purtroppo, girano pochi soldi e la fama tarda ad arrivare, uno su cui spesso abitano molti dei musicisti che amo. Ci volevano i Massive Attack, quindi, per regalargli scampoli di successo e, speriamo, una maggiore serenità. E se, quando ascoltate la voce di Antony, vi sembra di cogliere qualcosa di già sentito prima, provate a pensare a Callier...

Curiosamente, per non avendolo mai conosciuto o incrociato di persona, ho un aneddoto bizzarro che lo riguarda. Nel 2006, quando lavoravo a Rocksound, capitò in ufficio Greg Dulli degli Afghan Whigs per un'intervista. Non il solito domanda e risposta, ma una specie di quiz musicale che noi chiamavamo "blind test": per farla breve, si sceglieva una decina di pezzi che avessero in qualche modo attinenza col personaggio e glieli si faceva ascoltare/indovinare per poi parlarne in maniera più approfondita. Vista la grande passione di Dulli per la musica soul, decisi di mettere come brano finale proprio "Live With Me", di cui avevamo appena ricevuto il singolo promozionale. Durante i precedenti nove test, il buon Greg si limitò a sorridere compiaciuto e a indovinarli con grande semplicità, discorrendo del più e del meno, ma mancava l'ultima canzone che, ovviamente, non poteva ancora conoscere. Gli dissi di ascoltare tutto con calma, senza nessuna fretta: dopo un minuto buono si alzò dalla sedia eccitato, si accese una sigaretta (non si poteva, ma vaglielo a spiegare) e iniziò a ridere come un pazzo bofonchiando da solo, ma senza riuscire a capire chi fosse il cantante. 
Alla fine, al nome Terry Callier, si illuminò come un bambino infilando una serie infinita di "fuck", si prese il cd del blind test e me lo fece firmare come ricordo della giornata, avendo cura di infilarselo nella tasca del suo cappotto. Tutto qui, direte voi? No, c'è un seguito: qualche mese più tardi, proprio Greg Dulli fece recapitare in redazione il suo nuovo EP a firma Twilight Singers, tutto composto da cover, tra cui proprio "Live With Me", in una versione spettrale e più chitarristica. Bellissima, in ogni caso.
Chissà, magari non c'entra nulla, ma mi piace pensare che il mio cd che si era fregato quel giorno abbia guidato la scelta di Greg di includere e incidere quel pezzo. 

Ciao Terry, speriamo che dopo 900 miglia, per citare uno dei tuoi capolavori, tu sia finalmente arrivato a casa.

domenica 21 ottobre 2012

Volare!

Ieri sera, come mi capita raramente ormai, ho fatto un salto al Leonkavallo per vedermi il concerto di uno dei miei gruppi italiani preferiti di sempre, i Confusional Quartet. Dopo un'assenza di trent'anni circa e dopo aver dato alle stampe un album (oltre a un 10" e poco altro) che rientra puntualmente nei miei ascolti, i quattro bolognesi sono tornati a suonare assieme in formazione originale e hanno da poco pubblicato ben due dischi a breve distanza. Insomma, era giunto il momento di giocarmi il mio secondo bonus Leonkavallo dell'anno - il primo, per inciso, l'ho usato per i Black Fag. Prima di raccontarvi del concerto, credo che una breve spiegazione del mio scarso feeling con la location sia necessaria: detto della grande valenza sociale, politica e di aggregazione del centro sociale più famoso d'Italia e constatato come ormai, questa valenza, nel 2012, sia nulla o quasi, mi deprime e intristisce prendere atto di come si sia trasformato definitivamente in un grandissimo cliché del modello alternativo (qualunque cosa significhi questa parola) di cui era fieramente un bastione. E senza paraocchi o particolare astio, per carità, basta un breve tour al suo interno per rendersene conto.
Il Leonkavallo è una "non zona", congelata nel tempo e destinata a ripetere se stessa in maniera avvilente, ricordando la trama del film "Il giorno della marmotta": scegliete una qualunque serata, con concerto o senza, e il panorama che vi si presenterà sarà sempre ed inequivocabilmente lo stesso. Sala grande con nordafricani impegnati a fumare e ascoltare musica rap orrenda, casetta in mezzo al cortile con i soliti cinque sfigati coi bonghi (meglio se con i dreadlock in testa, che in fondo il reggae, Bob Marley, hai capito, no?), baretto in fondo con solitario suonatore di blues sul palchetto e odore di hashish, spazio concerti esterno vuoto e con musica a palla, intercambiabile con lo spazio concerti interno a seconda della stagione. Il primo gruppo di supporto (perché ce ne devono essere almeno due, se no che gusto c'è?) attacca poco prima di mezzanotte e suona quaranta minuti, il secondo idem, in modo che la band principale, quella per cui TUTTI sono venuti, inizi verso l'una e mezza, quando TUTTI si sono già rotti le palle e vorrebbero essere ovunque tranne che al Leonkavallo.
Ovviamente, essendo io duro di comprendonio e un inguaribile ottimista, continuo ad ostinarmi ad arrivare alle undici, nella segreta speranza che qualcosa sia cambiato e invece è sempre il giorno della marmotta, al punto che sospetto persino che il pubblico misto, quello a cui non importa di nulla in particolare se non del fumo e della birra a un euro, sia sempre lo stesso. C'è il sosia di Pirlo con lo skate sottobraccio, la compagnia dei Boateng - stesso taglio da idioti, senso dello stile inesistente, tatuaggi orridi -, il tizio col banchetto che vende pipe e bong, il nero alto due metri che passa il tempo a vagare nella sala concerti senza sosta e poi, il classico dei classici, quello che inevitabilmente si piazza di fianco a me: l'ubriaco molesto. Non importano razza, colore o religione (ieri sera era nordafricano, per esempio), servono solo cinque birre medie e il gioco è fatto. Comincia col chiederti sigarette, monete, accendino - ieri, in un momento situazionista di altissimo livello, mi ha chiesto l'età, lasciandomi senza parole! - e poi prosegue biascicando parole senza senso, iniziando dieci discorsi in cui vorrebbe coinvolgerti e, infine, cercando di abbracciarti come fossi suo fratello. Un gradino oltre la soglia di sopportazione, più o meno. 
Ora, se siete arrivati fino a questo punto con la lettura, vuol dire che siete curiosi e vi interessa sapere del concerto: un'ora o poco più di Confusional Quartet, con pochissime concessioni al passato, anzi direi una sola, la leggendaria "Volare", cover destrutturata del classico di Modugno, suonata a inizio set e come unico bis. E se da un lato un po' di delusione me la sono portata a casa - che bello sarebbe stato ascoltare "Orinoco Blues", "Pensione elastica" o "Bologna rock"? - dall'altra apprezzo un gruppo che si riforma trent'anni dopo lo scioglimento e non concede quasi nulla alla nostalgia, risultando attuale, contemporaneo e con un repertorio di tutto rispetto. Riconosco qualche brano tratto da "Italia calibro X", uscito qualche mese fa, e mi ascolto in anteprima i pezzi che stanno sul nuovissimo album, ancora una volta intitolato "Confusional Quartet" e basta. L'unicità del suono è ancora intatta, nel 2012 nessuno suona come loro e le caratteristiche che ho sempre amato mi provocano brividi di piacere e mi fanno quasi venir voglia di abbracciare l'ubriaco: tastierine dementi, base ritmica devastante, chitarra che rifugge accordi e riff facili per infilare strani arpeggi, un'intensità che ci si aspetterebbe da dei ventenni in piena tempesta ormonale e non da veterani del rock nazionale. Sono di parte, lo so, ma non importa: avevamo ragione nel 1980, figurarsi oggi...
Torno a casa con vinile e cd, spero di ascoltarmelo con calma nei prossimi giorni e, a parte la copertina, che trovo davvero brutta - il paragone con quella del loro storico esordio è impietoso -, sono certo che sarà un'epifania. Bentornati.

giovedì 27 settembre 2012

Never Mind The Bollocks


Due giorni fa, il 25 settembre, è uscito il cofanetto celebrativo di "Never Mind The Bollocks, Here's The Sex Pistols", che celebra il trentacinquennale di uno dei dischi più rivoluzionari della storia del rock e, senza dubbi, uno dei più importanti della mia vita. A differenza di tanti altri, paradossalmente, non mi ricordo il momento in cui lo comprai - al contrario dei singoli "Pretty Vacant" e "God Save The Queen", di cui ho memoria -, ma da quell'ottobre del 1977 non credo sia passato anno senza che l'abbia ascoltato almeno una volta. Ho ancora la copia del disco originale, tutta rovinata da un sacco di fotografie che io e mio fratello avevamo attaccato sulla copertina, fronte e retro, e sulla busta interna (c'è pure una tenerissima scritta "fuck off" fatta a penna...), al punto che la colla era filtrata attraverso la carta rovinando un po' il vinile.
L'ho ricomprato in altre versioni, in CD, nell'edizione del cofanetto uscito qualche anno fa, in tutte le salse insomma. Lo trovo perfetto oggi come allora, senza che abbia perso quell'aria minacciosa che tanto me lo fece amare, e non vedo l'ora che mi arrivi questo imponente boxset per risentirlo. È una di quelle confezioni per feticisti all'ultimo stadio, con il disco originale, i demo inediti (chissà dov'erano), due concerti live, una versione mai pubblicata di "Belsen Was A Gas" (uno stupido pezzo di Sid Vicious), una replica del singolo di "God Save The Queen" e del testo manoscritto da Rotten, un libro con foto inedite, un DVD con parecchi filmati interessanti. Immagino che possiate tranquillamente continuare a vivere senza, ma cercate di capirmi mentre guardo la versione expanded della mia giovinezza ribelle e romantica.
Paradossale, tra l'altro, che 35 dopo io abbia incontrato per la prima volta nella mia vita John Lydon (a luglio a Milano, sotto potete vedere la mia intervista) e Glen Matlock, il primo bassista che, ai tempi dell'album, già se n'era andato dal gruppo (ad agosto, a Londra, ci sono persino dei progetti per un paio di lavori futuri). Difficile che non abbiate mai ascoltato questo disco, ma nel caso ecco una buona occasione per farlo, seppur con colpevole ritardo. Beati voi, comunque...

mercoledì 19 settembre 2012

Evidently Chickentown


Ormai, l'unica maniera per fare un post sul mio blog è quella di aspettare una specie d'illuminazione o di cogliere qualche segno particolare nel mio quotidiano. Per esempio, una mail di mio fratello che mi parla, tra le altre cose, di John Cooper Clarke, di cui è uscito qualche tempo fa un bel documentario della BBC e che, negli ultimi mesi, era ritornato prepotentemente in cima ai miei pensieri. Qualche articolo, un'intervista, l'acquisto di un singolo che mi mancava a Londra... Ecco, mi sono detto, vale la pena spendere del tempo a scrivere del poeta del punk, The Bard of Salford. E, per voi, di leggere queste righe.

Come quasi tutte le cose che mi hanno impressionato nella vita, il primo incontro con JCC risale a quando ero ragazzino: un amico mi aveva prestato una copia di "Short Circuit - Live at the Electric Circus", un 10" che celebrava le due serate finali (1 e 2 ottobre 1977) di un leggendario locale di Manchester, offrendo al contempo una panoramica di una scena cittadina che stava per diventare una delle più incredibili della storia della musica rock: all'interno di quel disco, ci stavano Joy Division (a dire il vero suonarono a nome Warsaw, ma lo cambiarono poco dopo), Fall, Buzzcocks, Drones, Steel Pulse (una delle migliori reggae band d'Inghilterra) e, infine, John Cooper Clarke, con due brevissimi pezzi. La cosa incredibile, oltre al fatto di sentire un poeta che declamava in maniera anfetaminica e punk le sue rime, era ascoltare la reazione del pubblico: urla, schiamazzi e, alla fine, applausi a scena aperta. Non una chitarra all'orizzonte, solo la sua voce e una presenza scenica incredibile: bastavano il suo fisico scheletrico, la pettinatura da Dylan degli anni Sessanta, gli occhiali neri e quella voce inconfondibile per vincere ogni resistenza.

All'epoca il mio inglese non era un granché e mi ricordo che passai ore a cercare di intercettare qualche parola che giustificasse l'eccitazione del pubblico, le risate (anche quelle di Clarke, che a un certo punto s'interrompeva e non riusciva ad andare avanti), il tripudio generale. Potete provarci anche voi, ascoltando quella versione di "I Married A Monster From Outer Space", prima di arrendervi e farvi aiutare da Google. Io, ancora oggi, non riesco a trattenermi quando JCC arriva a questo punto: "When we went walking, tentacle in hand / you could sense that the earthlings would not understand / they'd go nudge nudge when we got off the bus, saying it's extra-terrestrial - not like us / and it's bad enough with another race, but fuck me, a monster from outer space". 
L'altro fulminante capolavoro si chiama "I Never See a Nipple in the Daily Express" e completa la doppietta, scatenando una curiosità per il poeta che non sarebbe mai venuta meno. 

Da quel momento, John Cooper Clarke è diventato uno dei miei miti personali, quasi mai condiviso con altre persone a dire la verità, se non in anni più recenti, quando è diventato una figura leggendaria anche al di fuori di Manchester e della scena indipendente britannica. Mi ricordo di una sua intervista su Mojo, opera di Alex Turner degli Arctic Monkeys, uno dai gusti buoni evidentemente, e poi, qualche mese fa, un'altra sul Guardian, in cui JCC candidamente raccontava del suo lunghissimo periodo buio, in cui la tossicodipendenza da eroina (e, tra le altre cose, la sua relazione pericolosa con Nico, ex Velvet Underground) lo ridusse in fin di vita. Insomma, uno di quelli di cui ti aspettavi di leggere un necrologio da un momento all'altro e che invece finiscono per farcela sempre in barba alla vita sana e regolare. 

E così, complice anche l'uscita del documentario di cui sopra, "Evidently... John Cooper Clarke", mi sono riascoltato in fila i suoi dischi - ne ha fatti parecchi, tutti bellissimi, spesso composti da vere e proprie canzoni su cui hanno suonato anche molti musicisti della scena di Manchester - e riguardato i vecchi filmati in rete. Impossibile non sorridere come un bambino durante "Evidently Chickentown", "Kung-fu International", "The Day My Pad Went Mad" e rincuorarsi nel vedere Johnny in buona forma durante alcune recenti esibizioni in cui viene osannato come fosse una star. In un mondo più giusto, il bardo di Salford lo sarebbe per davvero, ma che vogliamo farci...


martedì 3 aprile 2012

Stefano di dischi, lui fa la collezione

1- Una decina di giorni fa, a bordo della navetta per Malpensa, in direzione Londra, mi sono ascoltato con grandissimo gusto ed enorme sorpresa (non ricordavo quanto mi piacesse) una raccolta di pezzi di Eugenio Finardi compilata apposta per il mio iPhone.
2- Qualche tempo prima, discutendo dei contenuti di una nuova rivista top secret di cui vi parlerò quando sarà il momento, avevo proposto, con grande successo, un pezzo su un album del 1977, "Diesel" di Eugenio Finardi. 
3- Sull'ultimo numero di XL, quello di aprile appena uscito, scopro di avere una cosa in comune con Max Casacci (che intervista Eugenio Finardi). Per entrambi, il primo concerto in assoluto è stato del chitarrista e cantante milanese. Lui nel 1976, io tre anni più tardi.


E così, se tre indizi fanno una prova, mi tocca fare un post proprio sull'autore di "Musica ribelle", probabilmente il primo musicista italiano di cui sono diventato fan da adolescente. Avevo già scoperto il punk assieme a mio fratello, ma il bello di quel periodo era l'insaziabile curiosità che ci animava, una curiosità che non conosceva generi e confini: spesso si finiva per tornare a casa da Valerio e Cigna (i due negozi di dischi di Biella dove andavamo a spendere i soldi della paghetta settimanale) con le cose più disparate. Nella nostra discoteca si poteva trovare, fianco a fianco, Ramones, Dictators, Saints, Stranglers, Sex Pistols e Clash, ma pure Alberto Camerini, Ash Ra Tempel, Kraftwerk, Cheap Trick, Area, Frank Zappa, Stooges, Gong, Arti & Mestieri, MC5. Ed Eugenio Finardi, ovviamente. Non pensate che ci fossero due menti troppo consapevoli dietro a questa selezione, semplicemente la nostra ingenuità non ci permetteva ragionamenti sofisticati e così si andava per tentativi. Quasi tutti molto azzeccati, a onor del vero...


Tornando al protagonista di queste righe, fu dopo l'uscita di "Roccando rollando", ultimo suo lavoro su Cramps, che mio zio Ermanno portò me e mio fratello allo stadio Pistoni di Ivrea per vederlo dal vivo, il 29 agosto del 1979. Ho ricordi molto vaghi della serata: noi tre seduti per terra sull'erba ad aspettare l'inizio e poi a cantare tutte le canzoni; il gruppo eccezionale che accompagnava Finardi ovvero i Crisalide; l'inizio rock di "Tutto subito". E poi una canzone particolare, "Hold on", un  traditional cantato in inglese che Finardi eseguiva spesso dal vivo e che aveva fatto anche un paio di mesi prima all'Arena di Milano durante il concerto per Demetrio. Un blues molto sofferto, di cui non conoscevo nemmeno il titolo, ma che mi restò impresso nella memoria anche durante il viaggio di ritorno e che mi sarebbe spiaciuto non poter ascoltare su disco. Mio zio mi disse che era un pezzo troppo particolare per poter essere inciso in studio e che aveva senso solo dal vivo. All'epoca mi sembrava un commento molto pertinente, oggi un po' meno, sinceramente, ma chissà mai perché di tutta la serata mi è rimasto impresso proprio quello. Non posso più chiederlo a mio zio, purtroppo, ma dubito si ricorderebbe di una frase di 33 anni fa.

Per il resto della mia vita e fino a qualche mese fa, Finardi è rimasto in sottofondo, senza mai andare via del tutto però, con qualche sporadico ritorno di fiamma occasionale (rammento persino un concorso di Boy Music in cui si poteva vincere un giorno in sua compagnia!). Nel corso di vari traslochi e svendite ho finito per scambiare i vinili dei suoi primi cinque album, pentendomene in tempi recenti e ricomprandoli a prezzi triplicati, a dimostrazione del mio fiuto imprenditoriale. Li ho persino presi in CD, in un unico cofanetto, e la sorpresa di riascoltarli da cima a fondo è stata davvero inaspettata. I ricordi sono riaffiorati in maniera intensa e, complice una maggior esperienza, mi sono potuto godere appieno i suoi tre dischi più importanti, "Sugo", "Diesel" e "Blitz, quelli in cui ha raccolto il meglio del suo repertorio dei Settanta, e provare a immaginare cose di cui prima ignoravo l'esistenza (le "porte del cosmo su in Germania" saranno quelle dei corrieri cosmici e del kraut rock?). 

E così, proprio mentre sto correggendo queste righe per pubblicarle, digito su Google le parole Eugenio Finardi+Crisalide, per controllare tutti i nomi dei musicisti della sua band e la prima opzione della ricerca è quella di un blog che raccoglie in formato digitale quelli che una volta si chiamavano bootleg, ovvero registrazioni pirata di concerti. Apro il sito (http://rockrarecollectionfetish.blogspot.it/2012/01/eugenio-finardi-crisalide-stadio.html) e mi appare, con mio sommo sbigottimento, il file da scaricare del concerto di Ivrea, il primo della mia vita, con tanto di scaletta. QUEL concerto, insomma...
Dopo il download immediato, la cartellina resta sul mio desktop, chiusa e pronta per l'ascolto, mi fa quasi impressione aprirla. C'è anche "Scimmia", forse il mio pezzo preferito di Finardi, e verso la fine arriva "Hold On". Più tardi prendo coraggio e la ascolto, magari riesco a capire anche io se davvero non avrebbe senso come versione di studio...

venerdì 30 marzo 2012

Figli del demonio

In mancanza di grandi suggerimenti discografici - per quelli mi sto attrezzando, vediamo cosa salta fuori - e impegnato come al solito a comprare dischi possibilmente usciti prima del 1992, mi consolo con una buona infornata di libri musicali che mi terranno impegnato per le prossime settimane. Cominciamo con "Figli del demonio - Biografia dei Dirty Actions e del punk new wave genovese 1979-1982" (LiberoDiScrivere, 15€), scritto dagli amici Diego Curcio (un ottimo allievo, se mai posso dire di averne avuto uno) e Johnny Grieco, che proprio dei Dirty fu cantante e leader. Detto quindi che sono di parte e che ho pure scritto un breve intervento che trovate all'interno del libro, l'ultimo a mandarlo da buon ritardatario, "Figli del demonio" ha il grande pregio di raccontare, senza perdersi troppo in particolari maniacali che ne rallenterebbero la lettura e con l'aiuto di tutti i protagonisti, i tre anni che hanno visto l'esplosione del punk e della new wave a Genova. Ingenui, provinciali, dilettantistici, provocatori, esplosivi, tecnicamente imprecisi: proprio per tutti questi motivi i Dirty incarnavano bene l'essenza del punk rock settantasettino, accompagnati lunga la strada da un buon numero di altre formazioni che si sono un po' perse nelle pieghe del tempo, dai grandi Scortilla ai Metalbody e gli Alan Lads. Ovviamente consigliato e da tenere con cura nella propria biblioteca punk.
Dopo Genova, si cambia velocemente città, grazie a un bellissimo volume che mi ha gentilmente mandato il buon Oderso Rubini, storico protagonista della scena bolognese con le etichette Harpo's Bazaar e Italian Records e ancora in pista dopo tantissimi anni. Con la sua piccola casa editrice Sonic Press (ma anche label discografica col nome di Sonic Rocket), ha dato alle stampe un fantastico libro su cinquant'anni storia del rock a Bologna, "Largo all'avanguardia" (25€), oltre 400 pagine ricchissime di fotografie che raccontano una parabola artistica che, spiace per tutti gli altri, non ha nessun rivale in Italia. Non per nulla, la bibliografia su Bologna vanta molti volumi monotematici - e ricordo il bellissimo "Non disperdetevi" scritto proprio da Oderso con il giornalista Andrea Tinti nel 2003 -, nessuno dei quali però ha il dono della completezza come "Largo all'avanguardia". Dagli anni Sessanta in avanti, il volumone racconta le storie di tutti i protagonisti, celebri o meno, che hanno reso Bologna un possibile centro del mondo: da Beppe Maniglia e i Judas fino a Gaznevada, Confusional Quartet, Massimo Volume, Nabat, Isola Posse All Stars, Skiantos, Starfuckers, Il Parto Delle Nuvole Pesanti e tantissimi altri. Prezzo davvero popolare e ore di godimento assicurate, specialmente se, come me, avete amato in maniera viscerale la scena bolognese fin dagli anni Settanta. Voi fate come volete, io ci abbino il nuovo CD dei Confusional Quartet, "Italia Calibro X", appena uscito per Ansaldi Records e stacco telefono e computer...
E dopo due ottimi regali, ecco anche un ottimo acquisto dell'ultimo minuto, ovvero la versione italiana del libro di Barry Miles, "London Calling - La controcultura a Londra dal '45 a oggi" (EDT, 23€), in cui l'autore racconta con cognizione di causa (semplicemente se l' è vissuta quasi tutta la parabola artistica londinese, beato lui...) perché quella città resta uno dei centri focali del mondo intero, un posto in cui succede ciò che deve succedere, a qualunque livello. Lettura divertente, stimolante e che vi farà venire voglia di andarci o ritornarci prima possibile. Proprio nella capitale inglese, qualche giorno fa, sono riuscito a recuperare il libercolo a fumetti "Henry & Glenn Forever" (Cantankerous Titles, $6), gustosa presa in giro del machismo di Rollins (Henry) e Danzig (Glenn), due tra i più celebri e leggendari cantanti punk. Il sottotesto criptogay delle vignette, chiaro fin dalla copertina, è quello che ha fatto più scalpore nella comunità hardcore mondiale, ma gli Igloo Tornado, collettivo composto da quattro fumettisti, vincono la sfida grazie all'ironia che permea ogni vignetta. La recensione migliore l'ha fatta lo stesso Rollins: "Has Glenn seen this? Trust me, he would NOT be amused". Ne siamo certi, caro Henry...

giovedì 15 marzo 2012

The kid is alright

Posto sempre meno, me ne sono accorto, ma almeno lo faccio quando ne vale la pena. Come in questo caso, in cui ho avuto il piacere e l'onore di intervistare Roger Daltrey a Padova, poco prima del suo debutto italiano in cui ha suonato tutto "Tommy" per intero e un bell'estratto di classici immancabili degli Who. "My generation", "I can see for miles", "Behind blue eyes", "Who are you", "Baba O'Riley" e parecchie altre, per oltre due ore e mezza di spettacolo. Davvero incredibile per un quasi settantenne, ma raramente ho notato così tanta vitalità e curiosità in un artista che, diciamocelo, potrebbe ritirarsi a vita privata dopo una carriera irripetibile senza dover dimostrare più nulla. Del suo non avevo dubbi, ma anche il mio è stato un "amazing journey" niente male. Ecco l'intervista, con tutti i ringraziamenti del caso a chi di dovere...


martedì 31 gennaio 2012

I 100 dischi italiani più belli di sempre per Rolling Stone (Coney Zugna Baby remix)


Adoro le liste, mi piace farle, leggerle, compararle e, chiaramente, criticarle e pensare a come le avrei compilate io. Un esercizio calligrafico, forse, ma poco importa. L'ultima che ho letto in ordine di tempo è quella dei 100 dischi italiani più belli di sempre per Rolling Stone, in edicola stamattina per festeggiare il proprio centesimo numero. Chissà perché, sfogliando la rivista ho pensato immediatamente di rifarla a mio piacimento, tenendo buono il grosso del lavoro fatto da loro e aggiungendo/togliendo dove ritenevo opportuno. Ho usato le stesse regole - un disco per ogni artista, per esempio - e ho buttato giù quasi di getto il mio remix, senza però compilare i dischi in ordine di preferenza. Il numero uno, dunque, non è il più bello o il migliore, non mi interessava fare una classifica, solo segnalare quelli che ritengo i miei 100 dischi italiani più belli di sempre.
Sono soddisfatto? Certamente sì, credo proprio che la mia lista sia migliore, sebbene più imparziale, ma è pure ovvio: ho deciso tutto io senza chiedere ad altre persone di darmi un loro parere, ma ho cercato anche di mantenere un minimo di equilibrio tra passione personale bruciante e oggettivo valore artistico. Avrò dimenticato qualcosa? Poco importa, sarà per la prossima volta.
Insomma, più la rileggo e più mi piace, soprattutto perché scevra - finalmente, cazzo - di nomi come Ligabue, Zucchero, Vasco Rossi e via di questo passo. Per quelli è sempre pronta la lista dei musicisti più noiosi, sopravvalutati e paraculi...

1.CONFUSIONAL QUARTET: Confusional Quartet
2.BATTIATO, Franco: La voce del padrone
3.BATTISTI, Lucio: Don Giovanni
4.DE ANDRE’, Fabrizio: Crêuza de mä
5.RATS: C'est disco
6.CAPOSSELA, Vinicio: Ovunque proteggi
7.DIAFRAMMA: Siberia
8.CSI – CONSORZIO SUONATORI INDIPENDENTI: Linea gotica
9.AREA: Arbeit Macht Freit
10.CELENTANO, Adriano: Adriano Celentano con Giulio Libano e la sua orchestra
11.INDIGESTI: Osservati dall'inganno
12.CCCP FEDELI ALLA LINEA: 1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi del conseguimento della maggiore età
13.BENNATO, Edoardo: I buoni e i cattivi
14.GAETANO, Rino: Mio fratello è figlio unico
15.ELIO E LE STORIE TESE: Italyan, rum casusu ciktyi
16.RAW POWER: Screams from the gutter
17.DANIELE, Pino: Nero a metà
18.MASSIMO VOLUME: Stanze
19.VERDENA: WoW
20.NOT MOVING: Sinnerman
21.LE STELLE DI MARIO SCHIFANO: Dedicato a...
22.TENCO, Luigi: Luigi Tenco
23.OFFLAGA DISCO PAX: Socialismo tascabile
24.BERTE’, Loredana: Traslocando
25.SANGUE MISTO: SxM
26.EQUIPE 84: Stereoequipe
27.FINARDI, Eugenio: Sugo
28.ROSEMARY'S BABY: Love songs
29.NADA: Luna in piena
30.IL TEATRO DEGLI ORRORI: Dell'impero delle tenebre
31.BLACK BOX: Dreamland
32.ROCCHI, Claudio: Volo magico n.1
33.TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI: La testa indipendente
34.CASINO ROYALE: Sempre più vicini
35.ZERO, Renato: Zerofobia
36.ALMAMEGRETTA: Sanacore
37.CAPUTO, Sergio: Un sabato italiano
38.RITMO TRIBALE: Kriminale
39.FRANKIE Hi-NRG: La morte dei miracoli
40.DALLA, Lucio: Lucio Dalla
41.AFTERHOURS: Hai paura del buio?
42.GAZNEVADA: Sick Soundtrack
43.LINEA 77: Horror vacui
44.PFM: Storia di un minuto
45.FAUST’O: Poco zucchero
46.F:A.R.: Presto i topi verranno a cercarci
47.FABRI FIBRA: Mr. Simpatia
48.GABER, Giorgio: Far finta di essere sani
49.DETONAZIONE: Sorvegliare e punire 1983-1984
50.I CORVI: Ragazzo di strada
51.LE ORME: Ad gloriam
52.SORRENTI, Alan: Aria
53.ONE DIMENSIONAL MAN: You kill me
54.DECIBEL: Vivo da re
55.GARBO: A Berlino… va bene
56.AUTORI VARI: Rock ’80
57.AUTORI VARI: Gathered
58.POOH: Per quelli come noi
59.GOBLIN: Profondo rosso
60.KINA: Se ho vinto, se ho perso
61.GRAZIANI, Ivan: Pigro
62.CAMERINI, Alberto: Cenerentola e il pane quotidiano
63.CATTANEO IVAN: Primo, secondo, frutta (IVAn compreso)
64.BALLETTO DI BRONZO: Sirio 2222
65.CHRISMA: Chinese Restaurant
66.SKIANTOS: MONOtono
67.LOLLI, Claudio: Ho visto anche degli zingari felici
68.MARLENE KUNTZ: Il vile
69.NEGAZIONE: Lo spirito continua
70.ARTISTI VARI: The Great Complotto
71.DENOVO: Unicanisai
72.MATIA BAZAR: Tango
73.FRANTI: Il giardino delle quindici pietre
74.PANKOW: Freiheit fuer die sklaven
75.BISCA: S.D.S.
76.DISCIPLINATHA: Un mondo nuovo
77.STARFUCKERS Infrantumi
78.GIUDA: Racey Roller
79.FORTIS, Alberto: Alberto Fortis
80.STORMY SIX: Un biglietto del tram
81.BIGLIETTO PER L’INFERNO: Biglietto per l’inferno
82.LITFIBA: 17 re
83.SQUALLOR: Pompa
84.PERTURBAZIONE: In circolo
85.GANG, THE: Barricada Rumble Beat
86.CIAMPI, Piero: Io e te abbiamo perso la bussola
87.BANCO DEL MUTUO SOCCORSO: Darwin!
88.AFRICA UNITE: Un sole che brucia
89.BIANCHI, Maurizio: Symphony For A Genocide
90.JANNACCI, Enzo: Quelli che…
91.OSANNA: Palepoli
92.DEATH SS: The Story of Death SS (1977-1984)
93.ZU: Igneo
94.ARDECORE: Ardecore
95.NEFFA E I MESSAGGERI DELLA DOPA: Neffa E I Messaggeri Della Dopa
96.DE GREGORI, Francesco: Rimmel
97.I REFUSE IT: Cronache del videotopo
98.NAPOLI CENTRALE: Napoli Centrale
99.NEON: Rituals
100.FLUXUS: Non esistere



giovedì 19 gennaio 2012

Il gusto superiore di Claudio Rocchi


Capita sempre più spesso, in questi ultimi mesi, che molti degli appuntamenti più interessanti a livello musicale (ma non solo) siano in Santeria, un locale milanese in zona Città Studi che è pure difficile da definire. Ci sono degli uffici in co-working per chi vuole affittarsi una postazione di lavoro, un bar ricco di cose buone e appetitose, una sala per le presentazioni, un negozietto di dischi e libri. È la dimostrazione che, pur anteponendo una logica culturale (anche bere una buona birra o mangiare del buon cibo è cultura, almeno per quel che mi riguarda) a una grettamente economica, si può fare concorrenza a chiunque. Che poi tra i soci ci siano anche dei cari amici non fa che aumentare il piacere di passarci le serate o i pomeriggi.
Detto ciò, ci sono stato spesso ultimamente, la scorsa settimana per presentare un documentario sul D.I.Y., "Blood, sweat and vinyl", con la partecipazione di Mark "Barney" Greenway dei Napalm Death - ho finalmente realizzato, e credo di essere stato l'ultimo, il perché del soprannome -, Nicola Manzan/Bologna Violenta e i ragazzi dell'etichetta Frohike. Ieri sera, invece, ed è il vero motivo di questo post, sono passato per assistere alla presentazione del nuovo album di Claudio Rocchi, autentico freak della musica italiana, detto con il massimo rispetto possibile. Ci sono andato senza sapere bene cosa aspettarmi (ed essere, per una volta, di gran lunga il più giovane mi ha messo di buonumore), conoscendo di lui solamente due cose, entrambe vecchissime e distanti anni luce dall'oggi: il suo secondo album, nonché classico della psichedelia folk, "Volo magico n.1", uscito nel 1971 e ancora oggi parte integrante dei miei ascolti, e "Un gusto superiore", disco inciso assieme all'amico chitarrista Paolo Tofani (ex Area) dopo la conversione Hare Krishna. Ovviamente, l'aveva portato a casa mio fratello nel pieno del suo periodo mistico - credo durato pochi giorni/mesi - e resta un oggetto misterioso di difficile interpretazione, che non sento da decenni ormai. Mi è capitato almeno una decina di volte di vederlo in giro per mercatini, ma non me la sono mai sentita di ricomprarmelo. Chissà che sia la volta buona, appena lo incrocio di nuovo...
Tornando a Rocchi, in ogni caso, la sua carriera è passata per anche per la Cramps, come ogni artista interessante degli anni Settanta viene da pensare, storica etichetta casa di Finardi, Camerini, Area, Arti & Mestieri, ma anche Kaos Rock, Skiantos e molto altro. Poi, come molti dei suoi colleghi degli anni Sessanta e Settanta, è sparito dai radar (forse solo dai miei...) pur continuando a pubblicare dischi di cui non ho grandi informazioni. L'occasione per incontrarlo di nuovo è stata dunque quella in Santeria, in cui ha suonato per un'ora materiale vecchio e, soprattutto, nuovo. A parte le pause quasi infinite tra un pezzo e l'altro, mi è sembrato in gran forma, estremamente simpatico e comunicativo, con un'attitudine psichedelica, nel senso migliore del termine, intatta. Solo e circondato da strumenti, amplificatori, candele, incensi, una lampada chiamata Kundalini (guarda te...). Eppure così magnetico, come accade a chi ha qualcosa di importante da dire.
Insomma, prima di andare a casa mi sono procurato un paio di dischi che aveva in vendita, "A fuoco" del 1977, e "In alto", quello appena uscito, di nuovo per la rediviva Cramps. Proprio stamattina in macchina, vagando per il traffico milanese, tra code, smog, nebbia e freddo polare, ho ascoltato quest'ultimo, con un effetto che definire straniante è poco. Registrato, composto e prodotto dallo stesso Rocchi, pare uscito dalla metà dei Settanta e lascia quasi sgomenti. A parte qualche sporadico intervento esterno di altri collaboratori (la grafica terribile, per esempio), il resto è tutto farina del sacco del musicista meneghino (ora rilocato in Sardegna): "quella" voce, chitarre riverberate oltre ogni misura, drum machine che, spesso, vanno per conto proprio, suoni elettronici che appaiono e scompaiono, pezzi che sfumano in modi assurdi e inaspettati. Su tutto, testi mediamente molto interessanti e mai scontati, roba di gran lusso di questi tempi in Italia, specie se si pensa alla pochezza di ciò che si sente in giro e che viene spacciata per letteratura. Dovreste davvero ascoltarvi "Alchimia", "Gesù si gira", "Eccoti qui" e "La stella da cui vieni", nella speranza di intercettare una selle rare esibizioni psichedeliche di Rocchi.