Tra notizie buone - l'uscita di un bel CD live, della loro biografia Recombo DNA e la ristampa delle compilation capolavoro Hardcore Devo vol. 1 & 2, fuori catalogo da anni - e cattive, come la scomparsa del metronomo umano Alan Myers, storico batterista della band, è un buon periodo per parlare dei Devo, uno dei miei gruppi preferiti di sempre. In attesa di incrociarli nuovamente sul mio cammino, ripubblico qui un'intervista che feci tempo fa, nel 2007 per l'esattezza, tra Bergamo e Azzano Decimo, pubblicata in origine sul sito di Rolling Stone e ora persa nella rete. A corredo delle due giornate trascorse con loro, ci fu anche un incredibile servizio fotografico, a cura di Moira Ricci, con tutti e sei i protagonisti, io e la band, vestiti con le classiche tute gialle, di cui potete vedere uno scatto qui sopra. La mia tuta, ovviamente graziata dalle loro firme, è conservata con cura in un cassetto per l'eternità...
Akron, Ohio. Capitale mondiale della gomma, come viene definita dai suoi abitanti con un pizzico di orgoglio masochista (“Già all’inizio degli anni Settanta era una città fantasma, prossima alla morte”, mi confessa candidamente Jerry Casale). Un’ambientazione perfetta per una delle band più geniali e innovative della storia del rock che, da una condizione geografica così depressa e svantaggiosa, è partita alla conquista degli Stati Uniti e del resto del mondo. Dopo aver pubblicato un paio di dischi capolavoro come Q: Are we not men? A: We are Devo e Duty now for the future e aver raggiunto il successo al botteghino con Freedom of choice nei primi anni Ottanta, i Devo hanno vissuto un declino artistico e commerciale che li ha portati a una sorta di pensionamento dorato, fatto di qualche altro album e di un primo scioglimento. Da parecchi anni a questa parte la band (i due fratelli Mothersbaugh, Mark e Bob I, e i due Casale, Jerry e Bob II. Alla batteria siede Josh Freese, il session man più famoso dell’alternative rock americano) è attiva solo in sede live, attività piuttosto remunerativa in questi tempi di costanti reunion (ovviamente non era stato ancora pubblicato l'album di inediti Something for everybody del 2010, nda). Per la prima volta dopo quasi due decenni i Devo sono in Europa per un tour che tocca l’Italia per due date.
Akron, Ohio. Capitale mondiale della gomma, come viene definita dai suoi abitanti con un pizzico di orgoglio masochista (“Già all’inizio degli anni Settanta era una città fantasma, prossima alla morte”, mi confessa candidamente Jerry Casale). Un’ambientazione perfetta per una delle band più geniali e innovative della storia del rock che, da una condizione geografica così depressa e svantaggiosa, è partita alla conquista degli Stati Uniti e del resto del mondo. Dopo aver pubblicato un paio di dischi capolavoro come Q: Are we not men? A: We are Devo e Duty now for the future e aver raggiunto il successo al botteghino con Freedom of choice nei primi anni Ottanta, i Devo hanno vissuto un declino artistico e commerciale che li ha portati a una sorta di pensionamento dorato, fatto di qualche altro album e di un primo scioglimento. Da parecchi anni a questa parte la band (i due fratelli Mothersbaugh, Mark e Bob I, e i due Casale, Jerry e Bob II. Alla batteria siede Josh Freese, il session man più famoso dell’alternative rock americano) è attiva solo in sede live, attività piuttosto remunerativa in questi tempi di costanti reunion (ovviamente non era stato ancora pubblicato l'album di inediti Something for everybody del 2010, nda). Per la prima volta dopo quasi due decenni i Devo sono in Europa per un tour che tocca l’Italia per due date.
Per Bergamo abbiamo
organizzato tutto, intervista e photo session con la famosa tuta e il cappello
a vaso di fiori, ma come spesso succede le cose non vanno per il verso giusto.
Il manager è incazzato nero, nel pomeriggio è saltata la corrente un paio di
volte e lui minaccia di annullare il concerto, figurarsi la nostra intervista.
Nonostante il nervosismo che si percepisce nel backstage del Lazzaretto,
splendida location bergamasca, i Devo sembrano godersi quella che pare una
vacanza. Bob Casale viaggia con moglie e figli, due ragazzini magrissimi e
super nerd con magliette dei Megadeth, Mark pare uno scienziato pazzo dei film
di fantascienza, gli altri si fermano a parlare con chiunque capiti a tiro.
Jerry, tutto fasciato da un completo viola che gli dona un’aria elegantissima,
si scusa per gli inconvenienti e ne approfitta per sciorinarmi la sua lista di
ristoranti italiani preferiti, manco lavorasse per la Guida Michelin. Tra un
consiglio culinario e l’altro - lui (americano) a me (italiano), roba da non
credere… - il discorso si sposta proprio su Akron, da cui tutti loro sono
emigrati anni fa: “Negli anni Settanta, tutti vestivano con jeans a zampa
d’elefante, magliette psichedeliche, portavano i capelli lunghi, fumavano erba
e guidavano i furgoncini Ford. Beh, poi c’eravamo noi che apparivamo ai
concerti con le tute gialle e lì scoppiavano i casini, forse gli ricordavamo le
fabbriche che tanto odiavano”. Già le tute… gli mostro la mia, quella che
indosserò per le foto, e lui si mette a ridere, ma evidentemente è abituato al
culto selvaggio che accompagna la sua band, tanto più che con loro viaggia
Michael Pilmer, presidente del Club Devo, uno che passa gran parte della sua
giornata a coordinare iniziative legate al loro nome, tra cover band, party a
tema, scambio di materiale raro e il sito web. Un pazzo, insomma, con cui mi
trovo immediatamente a mio agio.
La tutona gialla dei Devo, uno dei
travestimenti di scena più scomodi e caldi che si possa immaginare, ma anche
uno dei più geniali, è passato alla storia e diventato icona della musica rock.
“Quando abbiamo trovato quelle tute in una fabbrica abbiamo capito che la loro
valenza visiva era proprio ciò che stavamo cercando, ci davano un aspetto
immediatamente riconoscibile e, al tempo stesso, ci facevano apparire come
degli alieni piovuti dal futuro. Avevamo un’educazione universitaria, eravamo
studenti di cinema o d’arte e quindi con un certo background culturale,
appassionati di dadaismo e pop art, ma adoravamo mischiare l’alto con il basso,
incorporare elementi che appartenevano alla cultura di serie B americana: la
fantascienza anni Cinquanta, i film da drive-in, l’horror, la letteratura pulp
e, di rimando, il rock’n’roll più trasgressivo. Da queste influenze abbiamo
tratto il sound dei Devo, lavorandoci sopra per anni in totale isolamento e
solitudine, senza che nessuno fosse minimamente interessato a noi, se non per
picchiarci (ride)”. La presenza minacciosa del manager impedisce di
approfondire troppo, ma con grande pazienza degli organizzatori e un po’ di
buon senso riusciamo almeno a ottenere cinque minuti per il servizio
fotografico, salvando almeno in parte la serata. I Devo fanno un concerto
strepitoso ed è già ora di partire alla volta di Azzano Decimo, a qualche
chilometro da Pordenone, per la seconda tappa.
Alle quattro di pomeriggio del
giorno dopo ritrovo la band e riprendo da dove avevo interrotto la sera prima.
Jerry mi invita a entrare nella stanza dove sta sistemando giudiziosamente le
tute e i cappelli per il concerto. Gli dico che pare quasi lo spogliatoio di
una squadra di calcio e mi guarda divertito. Forse dovevo dire football o
baseball… Ad ogni modo siamo qui per parlare della sua band e mi tolgo la
curiosità di domandargli la storia che sta dietro al loro primo leggendario album, Q: Are we not men?…, pietra miliare del punk e del rock degli anni Settanta,
quello con la cover de-evoluta di Satisfaction degli Stones. “Bob
Mothersbaugh era andato a un concerto di Iggy Pop a Cleveland, il tour di The
idiot con David Bowie alle tastiere. Alla fine del concerto avvicinò proprio
Bowie per dargli un demo dei Devo, ma lui lo buttò via senza nemmeno
ascoltarlo. Per fortuna Iggy recuperò il nastro e ne rimase affascinato,
costringendo David a sentirlo. Nove mesi più tardi, mentre eravamo in
California per un breve tour, lo stesso Iggy si presentò a un nostro show
dichiarando che i Devo erano la sua band preferita del momento e che Bowie
voleva produrci un disco. Poi, una serie di impegni ritardò la nostra
collaborazione e così finimmo, su suo suggerimento, per contattare Brian Eno,
il quale pagò di tasca sua le registrazioni del nostro debutto, prima ancora
che avessimo un contratto discografico. Non volevamo aspettare altro tempo,
avevamo il materiale pronto e perfetto per essere inciso, tutte le altre band
contemporanee a noi avevano giù un disco fuori. Per fortuna andò così e il
risultato, molto immodestamente, credo abbia passato indenne il test del
tempo”. Per anni si è vociferato di grosse ingerenze di Eno proprio in fase di
produzione, anche e soprattutto se si comparano i primi demo del gruppo, lenti
e robotici, e il materiale pubblicato sull’album. Casale non si scompone per
nulla: “Vuoi sapere la verità? Il nostro suono è maturato quando abbiamo
scoperto il punk, lì abbiamo capito che serviva inglobare anche quell’energia
per rendere il nostro materiale unico. Brian Eno non c’entra proprio nulla ”. A
dispetto di un’immagine giocosa e di una certa leggerezza di fondo, i Devo sono
una band che non è sbagliato definire politicizzata o quantomeno molto attenta
ai cambiamenti sociali. La loro celebre teoria della de-evoluzione, secondo cui
l’uomo sarebbe destinato a un’involuzione morale e culturale, fino a tornare
alla condizone di scimmia, pare essersi sinistramente avverata, almeno stando a
vedere quanto succede nel mondo e, specialmente, nel loro paese di origine. “In
questi ultimi anni, gli Stati Uniti sono diventati una nazione orribile,
guidata da un imbecille pericoloso che ha sempre la risposta sbagliata a ogni
domanda. Prendi un argomento a caso e te lo dimostro: politica estera? Un
disastro. Politica ambientale? Uno sfacelo, e via di questo passo. George W.
Bush è un cristiano fondamentalista, per me è identico a Osama Bin Laden, non
ci sono differenze, credimi. La de-evoluzione era partita come un gioco, una
battuta, ora si sta dimostrando reale e non so se ridere o piangere…”.
Mentre
Jerry continua giudiziosamente a sistemare le tute gialle, tagliandole sul
retro in modo che sia semplice strapparle durante Uncontrollable urge, gli
chiedo di raccontarmi ancora qualcosa, magari un episodio curioso legato
proprio al loro travestimento più conosciuto. Scoppia a ridere e mi guarda
pensoso: “Nel 1978 ci invitarono a Londra per tre concerti, eravamo il nome
nuovo della scena punk, così ci ritrovammo in Inghilterra. Il primo giorno,
alla Roundhouse, erano riuniti tutti i giornalisti delle maggiori testate
musicali britanniche e il New Musical Express ci propose un servizio
fotografico con i nostri costumi. Ci caricarono su un furgone e ci portarono
nell’East End, a quell’epoca una zona disastrata e pericolosa di Londra. Appena
scesi dall’auto cominciammo a camminare in giro con movenze robotiche mentre il
fotografo scattava. Non ci eravamo accorti di essere davanti a una scuola media
e che i ragazzini in cortile ci stavano osservando. A un certo punto, uno di
loro partì a tutta velocità verso di noi e tirò un calcio fortissimo sugli
stinchi di mio fratello Bob, il quale cominciò a urlare parolacce rivolte al
ragazzino e a inseguirlo zoppicando. Lui, per tutta risposta, si voltò verso i
suoi amici e gli disse: ‘Avete visto? Avevo ragione io! Non sono dei robot!’”.
Al ricordo, Jerry ricomincia a sogghignare ed esce dalla stanza. “Ci vediamo
dopo, vado a chiedere a Bob se si ricorda…”.
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