martedì 14 settembre 2010

no control


Dalla prossima settimana ricomincia la trasmissione radio mia e del buon Mox, No Control. La potrete ascoltare in streaming sul sito www.linearock.it, esattamente come la scorsa edizione. Appena ho ragguagli sul giorno in cui andrà in onda ve lo faccio sapere. Intanto, per celebrare il ritorno radiofonico del punk, ecco una vecchia intervista a Glen Matlock che ho fatto qualche anno fa, riveduta e corretta. Lui era in Italia con i Dead Men Walking (ah l'ironia...), gruppaccio che comprendeva anche altri vecchi eroi come Slim Jom Phantom (Stray Cats), Kirk Brandon (Theatre Of Hate) e Mike Peters degli Alarm, e si è gentilmente prestato per un'oretta dopo il concerto a fare due chiacchiere con me. Seduti per terra, dietro al palco del Transilvania a Milano, ecco cosa ci siamo detti...

Partiamo da questa serata... Sembra che tu e gli altri vi divertiate tantissimo a stare sul palco e riproporre un repertorio ormai classico, che comprende brani di tutte le band in cui avete militato. Come sono nati i Dead Men Walking?

Glen Matlock: Principalmente, sono nati quando abbiamo scoperto di essere amici uno con l’altro. Dopo un rapido giro di telefonate, ho capito che ognuno di noi conosceva gli altri possibili membri della band e quindi è stato molto facile assemblare la line-up e cominciare a provare. È una cosa molto “easy”, un gruppo che vuole far divertire la gente con canzoni che tutti, bene o male, conoscono, Il segreto sta tutto qui. Comunque, tutti noi abbiamo altri progetti: io e Mike suoniamo con gli Alarm, Slim Jim con gli Stray Cats... Ho fatto uscire un nuovo album con i Philistines, l’abbiamo appena presentato dal vivo. Ah, dimenticavo, ci sono anche i Sex Pistols (ride)...

Avete appena finito un tour negli Stati Uniti...

G.M.: È vero, è andato molto bene, ci siamo divertiti parecchio. È un po’ come quando torni a far casino con la tua vecchia gang, non servono parole, ci si capisce al volo...

E dire che, all’epoca, la tua uscita dalla band era stata piuttosto burrascosa...

G.M.: Beh, i giornali hanno esagerato le cose, c’erano tensioni, ma dettate dalla situazione di merda in cui eravamo. E poi Malcolm spingeva per il mio licenziamento perché diceva che non ero in linea col resto della band, visto che mi piacevano i Beatles. Eravamo giovani (ride)...

Visto che dei Pistols si sa praticamente tutto, mi piacerebbe conoscere qualcosa di più delle tue esperienze successive, a cominciare dai Rich Kids.

G.M.: Appena prima di andarmene dai Pistols, Mike Thorne, che era l’A&R della EMI, mi disse che, in ogni caso, gli sarebbe piaciuto avermi come artista sulla sua etichetta. Mi sembrava un’offerta interessante anche se non sapevo ancora che sarebbe successo di lì a poco. La sera stessa in cui ci fu la discussione col resto del gruppo, me ne andai in un pub chiamato Roebuck, dove incontrai Steve New, un amico che aveva anche fatto un’audizione per entrare come secondo chitarrista dei Pistols. Cominciammo a parlare e lui mi presentò Rusty Egan, che suonava quella sera, dicendomi quanto fosse bravo come batterista e che aveva fatto l’audizione per entrare nei Clash. In un attimo avevo già due membri della mia nuova band, senza neppure il nome! Cominciammo a suonare a casa mia, in uno squat, perché non avevamo una lira in tasca, nella speranza di trovare un buon cantante. Il nome Rich Kids arriva da un passaggio del libro “I ragazzi terribili” di Jean Cocteau.

Steve New, però, lo conoscevi da un bel po’ di tempo, no?

G.M.: Aveva fatto un’audizione per diventare secondo chitarrista dei Sex Pistols, come ti raccontavo prima, soprattutto perché Paul pensava che Steve non fosse così bravo (ride). Comunque, vedi com’è strana la vita, Steve lavorava come fattorino alla Warner e aveva ereditato il posto da Rusty! Dopo aver provato un sacco di gente, decidemmo di tenere Midge Ure e scrivere qualche pezzo assieme a lui. A quel punto avevamo già il contatto con la EMI, grazie a Mike, sebbene ci fossero molte etichette sulle nostre tracce: Chrysalis, Polydor, Virgin. Il primo concerto dei Rich Kids successe per caso: eravamo andati a vedere i Police all’Hope & Anchor e, siccome il gruppo spalla non si era presentato, il proprietario ci chiese di fare qualche pezzo. La serata andò benissimo e così cominciò una serie di date in giro per Londra, fino al momento in cui Midge ci disse che non non se ne faceva nulla. Proseguimmo per un po’ con me al basso e alla voce e Mick Jones dei Clash alla seconda chitarra. Appena Midge seppe, qualche tempo dopo, che la EMI aveva pronto un contratto per 150.000 sterline, mi telefonò per dire che ci aveva ripensato (ride).

I vostri primi singoli e l’album furono dei buoni successi...

G.M.: Il singolo d’esordio, “Rich Kids”, è stato una sorpresa anche per la EMI, che non si aspettava tutta questa attenzione, ma l’album è arrivato troppo presto, non eravamo pronti per inciderlo. Non c’era materiale a sufficienza e, soprattutto, c’erano troppi pezzi scritti da Midge... Quella non era la strada che volevo percorrere coi Rich Kids, ma la EMI spingeva per avere un disco fuori al più presto possibile, voleva un’altra punk band, al contrario di quello che desideravo io. Poco dopo la pubblicazione dell’esordio, Rusty e Midge cominciarono a interessarsi al nascente movimento “new romantic” (i due, infatti, saranno protagonisti della scena con i Visage, progetto di Steve Strange, e il solo Midge con la versione elettronica e pop degli Ultravox - nda), di cui a me non fregava un cazzo e questo portò i Rich Kids alla fine del percorso. Mi sarebbe piaciuto fare un secondo album, ma non ce ne fu la possibilità, magari anche continuare assieme a Mick per qualche tempo...

Intanto la tua carriera è proseguita come bassista di Iggy Pop...

G.M.: Dopo lo scioglimento dei Rich Kids non sapevo proprio cosa fare, ma come spesso succede in casi del genere, fu una telefonata inaspettata a risolvere il mio problema. Era il manager di Iggy Pop, Peter Davis, che mi chiedeva se fossi disponibile a fare un tour con lui. Aveva appena inciso “New values” e il bassista di quelle session avrebbe suonato la seconda chitarra durante i concerti, per cui necessitavano di un sostituto. È stato davvero così semplice, sono partito per il tour europeo e qualche tempo dopo sono entrato in studio con Iggy per registrare “Soldier”. Poi ci sono state ancora delle date negli Stati Uniti e basta, ho mollato il lavoro.

Perché?

G.M.: Avevo portato Steve New con me a registrare “Soldier”, a Iggy era piaciuto molto e l’aveva inserito tra i musicisti per quell’album. Steve, però, litigò pesantemente con David Bowie per una storia di donne e Iggy mixò il disco tagliando tutte le parti di chitarra di Steve, una cosa che mi diede molto fastidio. Glielo dissi e me ne andai, anche se, qualche tempo dopo, lo incontrai in un bar a New York e mi giurò che era dispiaciuto per la mia partenza e che ero uno dei suoi bassisti preferiti. In retrospettiva, devo dire che Iggy è una delle persone più professionali con cui abbia mai lavorato in vita mia, a dispetto della sua immagine di animale del rock’n’roll. Poteva essere fatto fino al midollo, ma sul palco era perfetto e dava tutto se stesso.

Che successe dopo?

G.M.: Me ne tornai a casa in Inghilterra e ripresi a suonare per i fatti miei. La mia band successiva, nel 1980 circa, si chiamava The Spectres con cui registrai un primo singolo autoprodotto, tanto per tastare il terreno, visto che ero in parola con i tipi della Arista per un contratto. Loro risposero prendendo tempo, li mandai a cagare e tornai alla Polydor che mi aveva sempre corteggiato. La Arista, però, aveva comunicato che ci aveva messo sotto contratto e così la Polydor spese i soldi che aveva in mente di dare a noi per firmare un nuovo contratto con Siouxsie & The Banshees. Non sono mai stato un grande manager di me stesso, devo ammettere (ride). Continuammo a suonare per un anno e mezzo circa, incidemmo un altro singolo per la Demon e poi ci sciogliemmo senza troppi rimorsi. Il resto di quella decade non fu un grande periodo per me, ma pure per il rock in generale, c’erano un sacco di gruppi di merda in giro. Così me ne sono stato per i fatti miei, badando alle mie cose, in attesa di momenti migliori. Ora sto certamente meglio che negli anni Ottanta.

Nei Novanta è arrivato il tour della reunion dei Sex Pistols che ti ha portato di nuovo in giro per il mondo. Come è stato ritrovarsi con gli altri tre, dopo tutto quello che era successo?

G.M.: Noi quattro abbiamo qualcosa in comune che nessun altro ha, cioè i Sex Pistols. All’inizio non sapevo che tipo di reazione avremmo avuto, ma è andato tutto bene e così ogni tanto ci ritroviamo e facciamo qualche data assieme, è divertente. Quest’anno siamo di nuovo tra i candidati per entrare nella Rock & Roll Hall Of Fame, quindi significa che qualcosa di buono l’abbiamo pur fatto. E poi, se ci sono i Clash, dobbiamo esserci pure noi (ride).

Nel 1977, la stampa inglese amava mettere in contrapposizione i Clash coi Pistols, tanto per ricreare quell’effetto Beatles contro Rolling Stones che tanto piaceva al pubblico. In realtà, eravate amici...

G.M.: Assolutamente sì. Prima dei Pistols, suonavo spesso con Mick e mi ricordo di quando lui fece un’audizione a Chrissie Hynde per una versione primitiva dei Clash. Quando me ne andai dai Pistols, mi trovai in un pub con Mick e Joe Strummer e mi offrirono il posto come bassista nei Clash. Io risposi che mi spiaceva per Paul, che avrebbero dovuto continuare con lui e basta. Infatti così fecero...

Hai mai avuto occasione di collaborare in maniera seria con Mick Jones?

G.M.: Mi sarebbe piaciuto molto, ma lui è troppo esaltato dalle cose elettroniche, techno, house, hip hop e io non c’entro nulla con quella roba. Nessun problema, apprezzo anche qualche suo disco recente, ma non fa per me, e poi credo che farebbe bene a tornare a suonare del sano rock’n’roll, perché lui è un chitarrista stiloso e eccezionale. Ora io sono felice dei Philistines, suono una specie di rock anni Settanta, ci sono influenze alla Sweet o Slade, ma anche di punk, ovviamente. Non puoi cambiare le tue radici...

Toglimi una curiosità... È vero che fosti chiamato anche a far parte dei Jam?

G.M.: È vero, furono Paul Weller e Bruce Foxton a offrirmi un posto come secondo chitarrista, sempre dopo la mia uscita dai Pistols. Parlammo per un po’ della questione e andò tutto bene fino a quando mi chiesero se ero disposto a mettermi un vestito come il loro per suonare. Gli dissi che non se ne faceva niente e me ne andai (ride)...

Solo per i vestiti?

G.M.: Sì, solo per quello. Magari le cose sarebbero finite in modo diverso, chissà, avrei potuto suonare con Paul Weller, l’ho sempre stimato come songwriter.

Ascoltandoti parlare, si ha proprio l’impressione che tu ti sia divertito in quegli anni...

G.M.: Puoi scommetterci. È stato un momento magico per me e per tutti quelli che avevano diciotto anni a quell’epoca. Mi spiace non essere più un ragazzino - e non c’è molto che io possa fare a riguardo - ma in fondo ho vissuto una vita straordinaria, anche se non sono mai stato una rockstar vera e propria. Il nostro successo era diverso, non sono Phil Collins, tanto per dirne una, mi sento un musicista che deve lavorare per mantenersi e questa è la condizione ideale per tenere i piedi ben piantati per terra e restare a contatto con la gente.

A proposito di contatti... Hai mai più sentito Malcolm McLaren o Vivienne Westwood?

G.M.: No. Ma so che Vivienne ormai è una star mondiale della moda. Lo si capiva che sarebbe diventata famosa, è una donna determinata, una specie di Thatcher (ride). Sono contento per lei, mi piacciono anche i suoi vestiti... È sempre stata brava a capire e interpretare i gusti della gente, sia con i Pistols che in seguito, da sola, con le sue creazioni.

Ascolti molta musica oggi?

G.M.: Poca, preferisco concentrarmi su quella che compongo io. Ascolto qualche band attuale, cose come Kings Of Leon o Jet, ma nulla che mi faccia gridare al miracolo.

Hai mai sentito nulla, in tutti questi anni, che abbia avuto lo stesso impatto dei Pistols, dei Clash o dei Ramones?

G.M.: (lunga pausa) No, non credo proprio, ma capisco che ora sia molto più difficile. Tutto è stato già scritto e suonato. I Jet, per esempio, suonano come i Pretty Things o i Rolling Stones, sono una revival band, nulla di nuovo o epocale. Non riesco ad appassionarmi...

Nemmeno i Nirvana?

G.M.: Erano una buona band, ma sai... io sono un punk, ho sempre avuto problemi con i capelloni (ride)...


domenica 5 settembre 2010

something on your mind

Una delle cose che mi manca di più è l'effetto sorpresa. Posso contare sulle dita di una mano i dischi che mi hanno fatto balzare sulla sedia negli ultimi cinque o dieci anni e quasi tutti erano ristampe o semplicemente album vecchi che non avevo mai sentito prima. Troppo ingeneroso con la musica odierna? Probabile, ma non importa, qui si sta discutendo dell'effetto sorpresa e quello è ancora più raro dei dischi belli. Sì, perché non solo il disco deve essere superbo alle mie orecchie ma deve anche farmi scattare una sorta di dipendenza, obbligarmi a schiacciare il tasto repeat (o meglio, farmi alzare per spostare la puntina indietro), evocare la solita vecchia domanda: come ho fatto a vivere fino ad ora senza? Di solito è un pezzo in particolare a farmi sentire senza difese, negli ultimi tempi mi è successo con "Something in the air" di Thunderclap Newman, poi con "Man next door" di Dennis Brown, "Sweet thing" di Van Morrison, "Nothing but a heartache" delle Flirtations e qualche altro. Un paio di mesi fa, è toccato a "Something on my mind" di Karen Dalton, cantante che conoscevo di nome ma di cui ignoravo la grandezza. È bastato un ascolto solo e per riprovare quella sensazione, l'effetto sorpresa, l'impressione di trovarsi davanti a un miracolo. Al di là della musica, bellissima per i fatti suoi, è la voce della Dalton il vero mistero, "la Bille Holiday del folk" l'hanno definita. Come spesso succede (e come la sua collega jazzista) ha avuto una vita difficile, caratterizzata da una dipendenza da alcol e droghe che l'ha ammazzata a 55 anni, con soli due dischi come testamento. A volte non serve altro: per referenze chiedere a Bob Dylan, Devendra Banhart, Joanna Newsom, Fred Neil e moltissimi altri che da quei due album hanno pescato a piene mani per comporre i propri. Intanto comprate "In my own time" e regalatevi l'ebbrezza del genio.

Yesterday any way you made it was just fine,
So you turned your days into night-time,
Didnt you know, you cant make it without ever even trying?
And something's on your mind, isn't it

Let these times show you that you're breaking up the lines,
Leaving all your dreams too far behind,
Didn't you see, you can't make it without ever even trying?
And something's on your mind.

Maybe another day you'll want to feel another way, you can't stop crying,
You haven't got a thing to say, you feel you want to run away
There's no use trying, anyway.
I've seen the writing on the wall,
Who cannot maintain will always fall,
Well, you know, you can't make it without ever even trying.

And something's on your mind, isn't it
Tell the truth now, isn't it
And something's on your mind, isn't it