martedì 27 dicembre 2011

the boiler

Mi ricordo di aver passato giornate intere, da ragazzino, a tentare di capire e poi tradurre il testo di "The Boiler" degli Special A.K.A. con Rhoda Dakar alla voce, un racconto terribile di violenza contro le donne. Un crescendo di tensione, lirica e musicale, che mi mette i brividi ancora oggi. Vi risparmio la fatica e ve lo copio qui di seguito.

I went out shopping last saturday
I was getting some gear and this guy offered to pay
Who's the hunk? I think to myself
For so many years I've been left on the shelf
An old boiler

Then we went walking back down the high street
And I felt so proud because he looked so neat
He was a real hard man, tough as they come
He said I was cool but I still felt like
An old boiler

He bid me "Come out", how could I say no?
He said "Meet me at eight round my place, you know"
With my new gear on and a blow dried hair-do
But in my mind I knew I was still
An old boiler

We danced all night long to a nice steady beat
But my hair went to frizz in the terrible heat
My mascara ran and so did my tights
Confirming in my sight, I must be
An old boiler

So we came out this club, hot and sweaty
Because we'd been dancing all night
And he says to me "Well babe, what you doing then?"
"Well I think I might get a cab", I said casually
"Nah nah, come back to my place, I only live just round the corner
You can go home in the morning, yeah?"
"Well I don't think so, I've only known you a day, It's a bit soon innit
Give me a ring sometime, yeah?"
But then he starts to get mad
"Listen here girl, I bought that gear you got on, I paid you in here tonight
I bought you all them drinks and you wanna go home, I should bleedin' coco"
And then he stormed off

Well, I felt a right mug, well you would wouldn't you
So I ran after him, caught him up
And here we are walking down this street about a hundred miles per hour
Arm in arm, no talking, atmosphere you could have cut with a knife

There's no-one about, nothing to take your mind off it you know
No cars, not even the occasional stray animal
It was cold and the wind's whistling through the trees
Blowing newspapers across my legs so I tripped as I tried to keep up with him
And there was all these alleyways and railway bridges, the stink of piss

Then all of a sudden he grabbed hold of my arm
And he starts to drag me up one of these alleyways
Then he starts to hit me really hard across the face, you know
He was hitting me and grabbing at me
It was awful because he was, like, so big
Hitting me he was, and tearing at my clothes
There was nothing I could do honest, I was helpless
And then he tried to rape me, and there was nothing I could do, honest
All I could do was scream, no...

giovedì 8 dicembre 2011

rumori sacri e profani




In attesa del famoso post sul karaoke punk - al momento sono sprovvisto di verve creativa per scriverlo a dovere -, ecco un breve aggiornamento delle ultime novità personali. La volta scorsa, parlando di dischi ricevuti, mi sono colpevolmente dimenticato di citare l'esordio discografico dell'amico Valerio Millefoglie. Lo scrittore/dj a parole/wrestler con gli occhiali e dio solo sa cos'altro ha pubblicato un bellissimo CD, "I miei amici immaginari": racchiusi in una confezione pregevolissima, con delle stupende illustrazioni (si aprono a fisarmonica e valgono il prezzo del disco), ci sono dieci pezzi più un remix che raccontano altrettanti personaggi della fantasia sfrenata di Valerio, da "L'Uomo Pan di Stelle" a "L'Uomo Striscia Pedonale", tutti musicati da Massimo Martellotta dei Calibro 35. Insomma, il consiglio è quello di andare a vedere dal vivo le sue performance, non vi pentirete. Il suo party di presentazione del disco/terapia di gruppo è stata una delle cose più divertenti degli ultimi mesi anche se ho fatto indigestione di ciambelle, cheeseburger e gazzosa.

Detto questo, passiamo al vero motivo del post, ovvero l'uscita di "Rumori sacri", un bel libro pubblicato da Kali Yuga, piccola casa editrice che fa capo ad Alessandro Papa, proprietario della libreria/galleria d'arte Mondo Bizzarro a Roma. Ho conosciuto Alex molti anni addietro, quando Mondo Bizzarro era ancora un piccolo negozio a Bologna e si occupava principalmente di tematiche estreme: serial killer, musica industriale e post-punk, b-movies, cultura dell'apocalisse. Ciò che oggi viene definito con il termine "Occulture". Avendo una fidanzata di stanza nella città felsinea, mi capitava abbastanza spesso di fermarmi a salutare Alex e, chiaramente, di uscire dal suo negozio con un libro o un dvd. Insomma, tutto questo ve lo racconto perché sono felice di ritrovarlo dopo molti anni con questo bel tomo, "Rumori sacri", che racconta la storia di quattro delle più importanti band della scena post-industriale italiana. I capitoli opera di Aldo Chimenti, Paolo Bandera e Devis Grazieri (e Papa ovviamente) si occupano di Ain Soph, Rosemary's Baby, Sigillum S e Atrax Morgue, nomi leggendari per chi è avvezzo a certe sonorità, progetti il cui materiale è introvabile se non a prezzi folli e che per molti anni hanno rappresentato la frangia più estrema di un un movimento già di per sè piuttosto incline a pericolose derive.
È stato soprattutto il nome Rosemary's Baby ad attirarmi, gruppo per cui ho sempre nutrito un interesse morboso e con cui mi imbarcai in un lungo carteggio epistolare in gioventù. Branca italiana del Tempio della Gioventù Psichica (T.O.P.Y.), i veronesi rappresentarono un unicum nella scena locale, tra suggestioni industrial, occultura, esoterismo e di loro conservo gelosamente dischi (due soltanto, il secondo mi arrivò per posta in regalo), cassette, volantini e lettere. Dopo essermene scordato per vent'anni e più, negli ultimi mesi ho avuto occasione di parlare di loro con un paio di amici che mi hanno risvegliato l'antica passione. Questo libro, dunque, non poteva che essere il mezzo ideale per riprendere in mano i vecchi vinili e scoprire alcuni retroscena di cui non ero a conoscenza.

Chiusura breve, infine, per un altro libro, recuperato in un mercatino ancora nel cellophane, perfettamente intonso. Si tratta di "Tutto in una notte" di Tony Parsons e vale molto più dei due euro che l'ho pagato. Ne possiedo già una copia, ma come spesso succede per le cose che mi piacciono, non riesco a fare a meno di ricomprarle, magari per regalarle ad amici. Parsons, per chi non lo conoscesse, fu uno dei primissimi giornalisti a occuparsi di punk, per l'esattezza assieme all'amica/compagna Julie Burchill, nella redazione di NME. Si dice che, per rimarcare la differenza con i colleghi che ancora si occupavano entusiasticamente di rock tradizionale, i due avessero circondato le loro scrivanie con filo spinato e cocci di bottiglia! In tempi recenti, Parsons è diventato un romanziere di grande successo in Gran Bretagna e questo libro è uno dei suoi migliori: la storia si svolge nella notte del 16 agosto 1977, data in cui muore Elvis Presley e in piena epoca punk, e ha come protagonisti Terry (giornalista musicale e alter ego dello stesso Tony), la sua ragazza fotografa Misty e la rockstar Dag Wood. Se siete appassionati di punk, riconoscerete molti posti della Londra di quegli anni, ma ovviamente il libro è godibile in qualunque maniera. Insomma, la copia in regalo è qui, posso valutare eventuali richieste...



domenica 27 novembre 2011

welcome back!

Troppi mesi senza scrivere, avete ragione, c'è persino chi si è lamentato per la scarsa cura dedicata a questo blog. Dopo una lunga pausa, ricomincio ora con un lunghissimo post per recuperare, spero con una frequenza più assidua di quanto fatto in precedenza. In questi mesi sono successe molte cose, ho comprato dischi belli, altrettanti mi sono stati regalati da amici, senza contare libri e concerti. Nessuno tipo di ordine, cerco solo di fare ordine in quello che ho visto, letto e sentito.
DISCHI
- I ragazzi di Macina Dischi (www.macinadischi.altervista.org), Walter e Anna, mi hanno gentilmente spedito un po' del loro materiale, complice Matt dei Mojomatics/Squadra Omega. Proprio a lui mi ero rivolto per avere notizie del suo nuovo progetto kraut/psychedelic, gli Squadra Omega appunto, dopo averne letto e sentito meraviglie. Il loro album omonimo, uscito per Holiday Records, e il favoloso dieci pollici "Le nozze chimiche", sono consigliati a chiunque sia appassionato di Amon Düül, Neu!, Can e via discorrendo. Il 10", poi, è un gioiello anche dal punto di vista grafico: vinile bianco e copertina in alluminio limitata a 200 copie. Roba per palati fini, non fatevela scappare, sempre che si trovi ancora. Tra l'altro, sempre la Aluminium Series, è uscito anche un altro dischetto, lo split tra Speedy Peones e i Kelvin.
- Gabriele della Badman Records (www.badman.it) mi ha invece omaggiato dei suoi ultimi due singoli. Il primo è dei Port Of Souls, gruppo del mio caro amico Andrea Valentini, regala una copertina ad opera di Simone "Lamette" Lucciola e tre pezzi di rock'n'roll scarno e allucinato come i Gun Club insegnano. Insomma, la vecchia passione del Reverendo Valentini non muore mai! Il 7" faceva coppia, nella stessa busta, con un'altra uscita, ovvero il singolo di Docteur Legume et Les Surfwerks, una one man band, da quel che leggo sul disco, innamorata di fantascienza anni 50, surf, rock'n'roll e zone limitrofe. Non proprio il mio pane quotidiano, ma se vi piace fatevi sotto...
- Elena di Metatron mi ha regalato una copia di "Salgari privato", ultimo disco concept (su Emilio Salgari, nel centenario della sua nascita) dei Totò Zingaro. Bello, intenso, interessante, mi ha costretto a leggere una biografia del grande scrittore e scoprire che ha passato una vita miserabile e pazzesca. Documentatevi e resterete a bocca aperta. Ah, comprate anche il disco già che ci siete.
- Filippo di Gamma Pop (www.gammapop.it), infine, ha rimesso in piedi la sua vecchia label e per farlo ha pensato bene di pubblicare un bel 10" dei Julie's Haircut e un album dei Cut, "Live in Brighton", che documenta la potenza devastante dal vivo della band di Ferruccio. Welcome back, anche a loro...
- Oltre a ricevere qualche vinile, sono ancora malato a sufficienza per continuare a comprarli, nuovi (pochi) e usati (moltissimi). Dei primi, non posso che segnalare i miei preferiti, nonostante ormai l'abbiano scritto tutti, ovvero i romani Giuda. Il loro LP "Racey roller" è il mio disco dell'anno, tallonato dai due singoli usciti prima e dopo, "Get it over/Kidz are back" e "Number 10/Crazee". Li ho comprati in vinile, in CD, li ho pure in mp3; I'm a Giuda fan, come recita l'adesivo sul loro album. Glam rock magnifico, zatteroni, echi anni Settanta, menzioni d'onore persino su Mojo. Che volete di più?
Il resto dei dischi nuovi che ho comperato in questi mesi è composto per la maggior parte da ristampe ("Some girls" degli Stones, "Quadrophenia" degli Who, "Smile" dei Beach Boys, "Tago mago" dei Can) ma pure da qualche novità vera e propria come il doppio vinile di "Skying" degli Horrors, un altro dei miei dischi preferiti di questo 2011, appena visti in concerto. Sto aspettando di recuperare il nuovo disco dei La Crisi ("III: Paura a colazione") e da quel che ho sentito, ne vale davvero la pena.

In ordine sparso, ecco anche alcuni degli ultimi colpacci da mercatino dell'usato, quelli che mi hanno regalato più gioia (al netto di pochissimi soldi spesi). Ormai ho perfezionato la tecnica della "faccia di legno impassibile", anche quando scovo cose assurde e rare a due lire, ma l'intima soddisfazione resta sempre: Krisma "Lola/Black silk stocking", Popol Vuh "Einsjäger & siebenjäger", Fela Kuti "Suffering and shmiling", Ennio Morricone "L'umanoide", Larry Martin Factory "New dawn flyers and electric kids", The Heartbreakers "L.A.M.F.", (qualche giorno fa in mezzo a una pila di Baglioni, Battisti, Branduardi e via col resto), Stormy Six "Un biglietto del tram". Ho lasciato a malincuore in un cartone il primo album di Plastic Bertrand ma era davvero conciato male, così come un paio di dischi di Giorgio Moroder che mi sarei portato a casa volentieri. Un buon numero di acquisti eccellenti, senza contare i molti altri che ora non ricordo.

LIBRI
Anche qui la faccenda è piuttosto complicata, vista la quantità di roba letta negli ultimi mesi, complici pure le vacanze estive. Mi sono goduto l'autobiografia di uno dei miei miti, Bob Mould, "See a little light", che mi ha lasciato, nonostante i grandi momenti di piacere, un po' di amaro in bocca. Qualche aneddoto in più sugli Hüsker Dü l'avrei preferito alle lunghe dissertazioni sui periodi successivi, meno interessanti musicalmente, se si eccettuano i primi album solisti e il materiale inciso con gli Sugar. La vicenda umana, con la lunga strada per arrivare ad accettare la propria omosessualità e la successiva esplosione di vita tra locali gay, serate gay, escort gay e molte altre vicende gay è un po' ridondante, ma riesco a immaginare quanto sia importante e fondamentale per Bob. A cui, mi pare il minimo, perdonerei qualunque cosa, figurarsi qualche lungaggine di troppo.
Piuttosto interessante è anche "Retromania" (ISBN) di Simon Reynolds, di cui è possibile trovare ottime recensioni un po' ovunque in rete e su cui glisso volentieri. Sono parzialmente d'accordo con l'autore, è sempre un piacere leggerlo e vado molto fiero della mia retromania personale. Fine del discorso.
Sul tavolino da notte (che non ho ma si dice così, ho un vecchio baule su cui appoggio di tutto), fanno bella mostra due libri che devo ancora leggere ma che mi fa piacere consigliare lo stesso: "Lick me" (Odoya) è l'autobiografia in italiano di Cherry Vanilla, personaggio cardine del sottobosco newyorchese dei Seventies: è stata groupie, attrice, cantante, modella, ha frequentato chiunque, da Warhol a Bowie, e il suo pezzo "The punk" è uno dei miei preferiti di sempre. Lo custodisco gelosamente su 45 giri fin da quando ero ragazzino e fa parte dei miei primi ricordi musicali.
Il secondo libro è invece italiano e si chiama "Fedeli alla roba". "Romanzo di un naufragio generazionale" lo definisce il suo autore Bruno Panebarco, artista, performer e musicista nei primi anni Ottanta a Torino con i Prostitutes (a breve una ristampa), ma soprattutto biografia di una peggio gioventù (tra cui lo stesso Bruno) trascinata nei gorghi dell'eroina, con le conseguenze che ben si possono immaginare: carcere, overdosi, casini, morti. Bruno è sopravvissuto per raccontarlo in un libro durissimo che più persone mi hanno caldamente consigliato. Non ultimo Federico Fiumani, la cui fulminante prefazione apre le danze. "La felicità di essere vivi, questo è quello che conta".
È stato ristampato da poco dalle Edizioni Il Foglio, ma potete anche ordinarlo direttamente a lui. Fate un giro in rete e scegliete se fa al caso vostro.

Altre letture consigliate: "Oltre l'Avenue D" (Agenzia X) di Philippe Marcadé - conosciuto dal vivo durante la presentazione del suo libro in Santeria a Milano, molto simpatico e gentile, cose che non guastano quando ci si appresta a leggere un libro -, l'autobiografia di Cheetah Chrome dei Dead Boys, "On a faraway beach" (Arcana), biografia di Brian Eno.

DVD
Ultimissime segnalazioni per qualche bel film o documentario per allietare le vostre serate invernali. Io mi sono goduto (o mi appresto a farlo):
"You weren't there - A history of Chicago punk 1977-1984", rockumentary su una scena che ha dato i natali a Naked Raygun, Big Black, Articles Of Faith, Mentally Ill, Effigies e moltissimi altri. Da leccarsi i baffi, che ve lo dico a fare...
"On|Off - Mark Stewart from Pop Group to Maffia". Diretto da un fan berlinese di Stewart, anche questo è un documentario che racconta la parabola di uno dei musicisti più interessanti usciti dal calderone post-punk.
"The ballad of Mott The Hoople", ovvero la storia di una delle migliori rock band inglesi degli anni Settanta, famosa per la hit "All the young dudes" scritta per loro da Bowie, ma capace di marchiare a fuoco una generazione di musicisti in erba. Per referenze chiedere a Mick Jones dei Clash.
Non bastassero queste segnalazioni, ecco anche un paio di ulteriori consigli, questi reperibili in rete in modo non troppo ortodosso: il documentario "Reggae Britannia" è imperdibile, ricchissimo di ospiti e di musica straordinaria. Visione consigliata, soprattutto ai malati di Steel Pulse, Matumbi, Linton Kwesi Johnson e altri nomi del genere. "A family underground", infine, è un film del 2009 dedicato agli Insane Clown Posse, terrificante gruppo rap americano di cui non ascolterei neppure una canzone. Eppure il documentario sul loro raduno annuale con i fan è in qualche modo toccante e certamente vale l'ora e mezza di visione.

Siamo alla fine del post, per fortuna mia e vostra, e non sono nemmeno riuscito a raccontare del Punk Rock Karaoke, in cui ho cantato "12XU" con una band di leggende, e di molto altro. Nei prossimi giorni rivelo tutto, compreso il video che certifica l'esibizione.





giovedì 5 maggio 2011

waka waka (this time for Assago)


Non si vive di solo punk, il contrario semmai, e così finisco per andare a vedere il concerto di Shakira al Forum di Assago, una faccenda di lavoro, ma mi tocca lo stesso. Sono in dolce compagnia, non c'è nemmeno tanto casino e la gentile addetta stampa mi fa avere due biglietti per la tribuna Gold, per cui la parola "lavoro" assume connotazioni un po' ridicole. Come al solito mi emoziono davanti alle scene di bagarinaggio selvaggio, con una serie di energumeni che il Lombroso avrebbe amato alla follia che discutono tra di loro in napoletano e spacciano biglietti davanti alla cassa ufficiale. Imperdibile!
Poco dopo le nove ha inizio lo show e noi siamo comodamente seduti nella seconda fila della tribuna, circondati una fauna degna dell'Hollywood: a destra c'è una ragazzetto che pare un finalista di "Amici", a sinistra una coppia con lui che urla battute simpatiche ogni volta che Shakira fa una mossa sexy. Alla terza vorresti ammazzarlo, ma per fortuna si alza con la sua donzella e se ne va in platea. A un certo punto passa Cordoba dell'Inter con le stampelle, dietro di noi è seduta A. e poco più in là c'è A. Y. accompagnata da altre amiche che starebbero benissimo con gli shorts di Shakira in vendita al banchetto del merchandise con la scritta "loca" sul culo (30€, un affarone), e da un paio di personaggi grotteschi che paiono usciti da un film dei Vanzina anni Novanta, ma che invece sono più veri del vero. È la Milano da bere, baby, quella che non disseta mai, ed è inevitabile, quando Shakira attacca "Waka Waka" come bis finale, pensare alla versione di Elio E Le Storie Tese con il bunga bunga di Fede e Lele. Manca solo Ronaldinho a fare il trenino e poi ci siamo tutti...
In mezzo a tutto ciò c'è un'ora e mezzo di spettacolo, molto meno tamarro di quanto mi sarei mai immaginato: niente lustrini e paillettes, ma un impianto classico da concerto rock, con la cantante mignon che spazia tra pop, elettronica, reggaeton, dance e io che penso che la musica latino-americana sia una punizione di Dio per qualcosa che non capisco bene. La Y. canta tutte le canzoni a memoria con la faccia immersa nell'iPhone, proprio mentre a me tocca considerare che, a parte una brutta versione di "Nothing else matters" dei Metallica e l'accenno a "Unbelievable" degli EMF, non ne riconosco nemmeno una. Segna persino il Barcellona al camp Nou contro il Real Madrid e lei trova il momento buono per annunciarlo dal palco, poi parte "Loca loca" ed è il segnale che la serata sta volgendo al termine. Un assaggino di waka waka con folla in delirio (menzione d'onore al giacca e cravatta pelato che sculetta senza ritegno e alla milf esagitatissima di fianco a me in platea) prima che il Forum si riversi nel posteggio per creare il solito ingorgo post-concerto e via verso casa. C'è un tempo per l'Africa e uno per Assago, ma ora è venuto quello di un panino dello Stalingrado per riequilibrare la serata...




martedì 26 aprile 2011

oh bondage up yours!


Con la scomparsa di Poly Styrene se ne va un altro pezzo della mia giovinezza, una delle cantanti più bizzarre e personali della scena punk rock londinese. Ho avuto la fortuna di intervistarla qualche anno fa, come potete leggere poco sotto. Ciao Poly!

Come ti sei avvicinata alla musica? Se non sbaglio avevi anche inciso un singolo pop prima di formare gli X-Ray Spex...

Poly Styrene: Sono sempre stata interessata alla musica, fin da quando ero una bambina alle elementari. La prima volta che provai a cantare fu in occasione di un saggio scolastico, in cui con un’amica facemmo un paio di cover di Lulu. Poco dopo mi ritrovai a studiare arte drammatica alla Oval House e a seguire delle lezioni di canto alla Wigmore Hall di Londra, poi mi trasferii a Bath seguendo una jazz band che si chiamava Johnny Rondo Condo e, infine, ritornai a Londra. Mi fu offerto di incidere un singolo con il mio vero nome, Mari Elliott, ma la svolta arrivò il giorno del mio diciottesimo compleanno, quando vidi un gruppo all’epoca sconosciuto, i Sex Pistols, suonare al Ballroom di Hastings Pier. Fu lì che decisi di formare gli X-Ray Spex...

Siccome il punk non era ancora esploso, quali erano le tue influenze a quell’epoca?

P.S.: A livello di influenze femminili, direi Joni Mitchell, Carole King, Carly Simon, Janis Joplin, Tina Turner, Grace Slick e Melanie: erano artiste credibili, spesso scrivevano i propri pezzi. Amavo anche il suono della Motown e cose come Diana Ross e le Supremes, ma l’ispirazione primaria, in fatto di carriera musicale, arrivava dalle cantanti che ti ho citato prima. Uh, adesso che mi viene in mente, un’influenza decisiva fu una cantante che si chiamava Linda Lewis: la vidi suonare all’Oval Pop Festival in mezzo a un sacco di gruppi progressive e lei li spazzò via con la sua bellissima voce.

Parliamo dell’avvento del punk. Cosa ti viene in mente, così a bruciapelo?

P.S.: Era eccitante, soprattutto perché ne facevo parte anche io, ma c’era parecchio caos. Ascoltavo soprattutto la mia musica e l’unico album che comprai all’epoca fu quello dei Pistols, che ascoltai ininterrottamente per una settimana, prima di tornare ai miei classici abituali: “Exodus” di Bob Marley, “Black star liner” di King Tapper Zukie e “All on the rock” dei Cimmerons. Ero quasi sempre in un paradiso reggae...

Come hai trovato gli elementi per formare la band?

P.S.: È risaputo che piazzai un annuncio su Melody Maker e NME in cerca di giovani punk con cui suonare. I primi a presentarsi all’audizione furono Lora, Paul e Jak. Lora rimase con noi per cinque date e suonò sul primo singolo. Ci sono un sacco di leggende attorno a lei e al fatto che io l’abbia buttata fuori dal gruppo, ma sono miti che voglio sfatare e che credo abbia messo in giro lei stessa. Era una ragazzina a quei tempi, affascinata dalle droghe e dall’alcol che circolavano liberamente all’interno del gruppo. Il nostro manager parlò coi suoi genitori e decise che era meglio che Lora tornasse a scuola, con la promessa che l’avrebbe aiutata a formare una band una volta diplomata, cosa che successe puntualmente (si tratta degli Essential Logic - nda). Comunque sia, il fatto di aver suonato negli X-Ray Spex le diede un minimo di fama e l’aiutò a portare avanti i suoi progetti personali. Eravamo un gruppo che lavorava duramente, con un’etica professionale rigida e con parecchi impegni e Lora non avrebbe potuto mantenerli. Così trovammo un altro sassofonista e andammo avanti, diventando molto uniti e creando una forte amicizia. Tornando a Lora, sono felice che non si sia trasformata in un martire del rock’n’roll come Sid Vicious e questo grazie a Falcon Stuart, il manager. Dopo essere diventata Hare Krishna si è ripulita, lasciandosi alle spalle un brutto periodo...

Uno dei meriti del punk rock è stato quello di aver parificato l’importanza di uomini e donne all’interno della scena, al contrario di una concezione diffusa di rock come musica fallocentrica. Una sorta di democrazia musicale, in un certo senso...

P.S.: Non sarei così radicale, anche perché le donne hanno spesso avuto un ruolo fondamentale nello spettacolo, a Hollywood e nel cinema per esempio. L’industria musicale ha creato questo mito che le donne non hanno il fisico per reggere lo stress di un tour massacrante, in parte magari anche giustificato, ma io con gli X-Ray Spex avevo la stessa forza dei miei compagni di band. Ora non riuscirei più a farlo, ma allora non c’erano distinzioni. Non è che non esistesse una sorta di democrazia nella scena punk, era soprattutto la conseguenza della nostra educazione di giovani ragazze cresciute nell’Inghilterra del dopoguerra. Quando fondai gli X-Ray Spex presi Lora nella band perché mi piaceva a livello personale e perché fu l’unica sassofonista a presentarsi all’audizione. Semplicemente per questi motivi, non perché volessi a tutti i costi una ragazza...

Gli X-Ray Spex si differenziarono immediatamente dal resto delle punk band. Avevano un suono particolare, il sax, la tua voce strillata...

P.S.: Credo che l’originalità del gruppo stesse soprattutto nei testi. Per quanto riguarda la musica, la componevamo io e Jak, il chitarrista, e poi la arrangiavamo con gli altri. Comunque hai ragione, avevamo introdotto il sax, uno strumento per nulla punk, ma ci piaceva l’idea di essere diversi da tutti gli altri e, alla fine, fu un’idea brillante. Personalmente, non amo il mio modo di cantare, era troppo strillato. Era necessario che fosse così per quel tipo di musica, ma preferisco il suono della mia voce nei miei dischi più recenti.

Il vostro primo singolo, “Oh bondage! Up yours”, è considerato a ragione uno dei classici del punk rock. Come è nato quel pezzo?

P.S.: Mi ricordo che ero molto eccitata quando composi quel brano. Lo registrai assieme a Gary Moore dei Thin Lizzy come demo, prima di proporlo al resto del gruppo, ma mi accorsi subito che era fantastico e aveva una marcia in più. Era un concentrato di energia e, in pratica, ebbe un ruolo centrale nella parabola degli Spex. E poi Jak, Lora e Paul aggiunsero un tocco personale a “Oh bondage! Up yours”, cosa che lo rese uno dei nostri preferiti dal vivo. Sembra scontato dirlo, ma lo composi in pochissimo tempo e piuttosto facilmente.

La prima volta che lo ascoltai fu nella compilation “Live at the Roxy”, registrata nel tempio del punk londinese. Che cosa ricordi di quel club?

P.S.: La prima volta che ci andai fu con Falcon Stuart, il nostro manager, e il giornalista Jon Savage (autore di “England’s dreaming”, splendido libro sull’epopea punk del 1977 - nda). Era una serata di audizioni e, in pratica, tutti i gruppi punk di Londra o quasi erano lì per suonare e ottenere un ingaggio: Generation X, Damned, Johnny Moped, Slits, Vibrators, Buzzcocks, Adverts. Poi c’erano un sacco di altri personaggi come Mark Perry o Chrissie Hynde e parecchi ragazzi che assistevano alle esibizioni. Mentre ero in bagno - mi ricordo che in angolo era seduta Susan, una commessa del Seditionaries, che si faceva dei tagli sulle braccia con un rasoio - Falcon e Jon parlarono con Andy e Susan, i due proprietari del Roxy, e ci fissarono una data per la settimana successiva. Succedeva davvero così, c’era un movimento pazzesco e tutto andava a grande velocità. Il Roxy era un posto difficile in cui suonare, il pubblico era esigente e brutale - finivi sempre coperto di sputi e con qualche ammaccatura -, ma se eri in grado di conquistarlo e farlo pogare, allora potevi esibirti ovunque senza problemi.

Un altro dei tratti salienti degli X-Ray Spex era il look. Tu avevi sempre dei vestiti incredibili...

P.S.: Il primo lavoro che feci dopo essermene andata da scuola a 15 anni fu come assistente del reponsabile acquisti e come indossatrice per una catena di negozi di moda inglesi. Quando formai gli X-Ray Spex non ero una sprovveduta, quindi, avevo le idee molto chiare sul look da adottare e spesso mi facevo i vestiti a mano da sola assieme a un’amica, Sophia Horgan. In pratica, divenni la stilista della band, realizzando i vestiti anche per i ragazzi e questo ci differenziava dai Pistols per esempio, che andavano in giro con la roba costosissima di Vivienne Westwood e del Seditionaries. Usavo materiale comprato nei mercatini e lo trasformavo in qualcosa di originale, che durava lo spazio di un concerto o poco più. Era roba usa e getta, ho sempre pensato che il punk significasse estremismo anche a livello di look e moda. Non c’erano regole e questa era la cosa più interessante, oltre che un gran divertimento.

Quale fu la reazione del pubblico agli X-Ray Spex, visto che abbiamo parlato delle vostre differenze rispetto alla punk band classica?

P.S.: Ci costruimmo un seguito di fan abbastanza rapidamente, grazie anche al supporto della carta stampata che ci seguì fin dagli inizi. In pratica, non abbiamo mai suonato di supporto a nessuno e quindi i ragazzi nel pubblico venivano a sentire noi. Qualche volta la stampa musicale ci dava contro, ma questo non faceva che aumentare la nostra visibilità. A questo aggiungi il fatto che il punk era considerato socialmente pericoloso e quindi esercitava un grande fascino sui giovani di quegli anni.

Il vostro album, “Germ free adolescents” uscì solo nel novembre del 1978, quando il punk era in declino e molti dei gruppi cardine si erano sciolti o avevano mutato il proprio suono. Per quale motivo non lo pubblicaste prima?

P.S.: Gli Spex si costruirono un grande seguito grazie alle esibizioni live e senza il reale supporto di un’etichetta discografica. Il disco uscì così tardi perché volevamo che rispecchiasse la nostra crescita e che fosse suonato nel miglior modo possibile. Così lo testammo dal vivo un’infinità di volte prima di registrarlo, ma penso che ancora oggi possa essere considerato un classico del punk rock. Lo dimostra anche il fatto che lo si può trovare in qualunque megastore e che è stato spesso ristampato nel corso degli anni. Sono fiera di quell’album...

Immagino che ti piaccia anche oggi allora...

P.S.: Mi piacerebbe molto poterlo risuonare, con uno stile più contemporaneo magari, solo per divertimento. Sarebbe carino, non trovi? Una volta ne ho parlato con Paul Dean, il bassista degli Spex, e anche lui era d’accordo. Siccome Jak Airport purtroppo non è più qui con noi, chiederei a Brian James dei Damned di suonare con noi. Ho appena registrato un duetto con lui per il suo album solista. In definitiva, “Germ free adolescents” mi piace molto anche se la mia performance vocale non è il massimo...

Prima parlavi dei testi. Come li componevi?

P.S.: Cercavo di usare uno stile di scrittura particolare per esprimere dei concetti post-moderni che, probabilmente, hanno più importanza nel 2005 di quanta ne avessero allora. In fondo erano delle liriche molto naïf...

Il vostro scioglimento è avvenuto poco dopo l’uscita dell’album. Quali furono le cause?

P.S.: Lo scioglimento avvenne dopo l’uscita di “Talk in toy town”, il singolo estratto dal mio album solista, “Translucence”. L’ultimo 45 giri degli Spex, invece, fu “Highly inflammable”. In pratica lo split fu orchestrato da Falcon, ma a quel punto il nostro suono era davvero cambiato troppo, specie quello di “Translucence”. Avvenne, di fatto, dopo un concerto a Parigi. Dopodiché, Paul e Jak fecero un singolo prima di formare i Classic Nouveaux, un gruppo new romantic che ebbe un discreto successo. Anche Rudi e BP fecero qualcosa assieme ma non ricordo bene cosa... Lo scioglimento, comunque, non avvenne per litigi, semplicemente era ora di cambiare, ci stavano evolvendo e io ero molto stressata dalle continue date live. Anche oggi preferisco di gran lunga sperimentare in studio che suonare dal vivo...

Che cosa hai fatto dopo la fine degli Spex?

P.S.: Sono diventata una compositrice piuttosto che una semplice cantante, motivo per cui la stampa non si è certo occupata di me in questi anni. Mi interessa la pubblicità solo se collegata a qualche progetto che porto avanti e non per finire nelle rubriche di gossip delle riviste musicali. Mi applico seriamente al mio lavoro, anche grazie a un’educazione krishna che mi ha aiutato nei momenti di difficoltà. Davvero, non sono un personaggio così interessante per i media! Poi, ho cresciuto mia figlia Celeste, anche lei è una cantante e scrittrice molto dotata, abita a Madrid, insegna inglese e sta per completare i suoi studi universitari. Sto inoltre creando un’etichetta discografica, Fair Music, per aiutare musicisti che mi piacciono, lavoro talvolta nel mondo del cinema ad alcuni progetti e porto avanti il mio sito www.x-rayspex.com. Sono molto occupata, come vedi, ma nella più completa indipendenza. Preferisco essere libera e completare i miei lavori con calma.

Hai anche pubblicato un album di recente, “Flower aeroplane”...

P.S.: Non è proprio un disco nuovo, contiene otto pezzi che non erano mai usciti in precedenza e cinque estratti da “Translucence”. Non saprei come descriverli, una specie di musica trascendentale e chill out con un retrogusto metal. Presto lo metterò online sul sito così potrai sentirlo, ma si trova già nei negozi o in vendita da me.

Il tuo sito ti permette anche di comunicare con un sacco di gente, immagino. Io ti ho contattata proprio grazie a quello. Ti scrivono ancora in molti?

P.S.: Sono felice di mantenere i rapporti col mondo esterno grazie al sito, mi scrive un sacco di gente carina e simpatica. Il merito è tutto di mia figlia e di David McConville, un amico stilista, che mi hanno spinta ad aprire il sito per raccontare in maniera corretta la storia degli X-Ray Spex, vista la quantità di leggende inventate che circolavano su di noi. Internet ha rivoluzionato il mondo della comunicazione e permette a gente come me di mantenere un controllo effettivo sul proprio lavoro.

A questo punto ti manca solo di scrivere un libro...

P.S.: In effetti è una cosa a cui ho pensato spesso, ma intanto online ho cominciato a scrivere il mio diario degli anni Settanta. Purtroppo è una cosa che porta via moltissimo tempo. So che c’era anche qualcuno interessato a farci un film o qualcosa del genere ma al momento non sono in grado di dirti di più. Staremo a vedere...

Hai qualche rimpianto?

P.S.: No, assolutamente, prendo tutto con molta filosofia e credo che ogni cosa succeda per una ragione ben specifica. Si può imparare molto sia dalle cose negative che da quelle positive.

Sei ancora in contatto con i tuoi ex compagni di band?

P.S.: Ogni tanto sento Paul Dean, anche per via del sito della band, mentre ho perso ogni contatto con Lora. Tempo fa cominciò a mandarmi delle lettere minatorie perché secondo lei le avevamo fregato delle royalties di un pezzo, “Conscious consumer”. Inutile dirti che le diedi esattamente un terzo dei soldi, gli stessi che prendemmo io e Paul. Evidentemente a certa gente non va bene nulla... BP e Rudi sono praticamente scomparsi e non so proprio dove siano, mentre sia Jak Airport che Falcon Stuart sono morti pochi anni fa.

Per chiudere, dimmi i tuoi cinque pezzi punk preferiti dell’epoca.

P.S.: Direi “White riot” dei Clash, “If the kids are united” degli Sham 69, “Right to work” dei Chelsea, “Money talks” dei Rubella Ballet e “Art-i-ficial” degli X-Ray Spex.

sabato 9 aprile 2011

la grande oliva


Non sono nato a Milano e ci abito da un tempo relativamente breve, poco più di dieci anni, ho pure un certificato di residenza che mi consentirà, tra qualche settimana, di contribuire a cacciare fuori dai coglioni il peggior sindaco che questa città abbia mai avuto da che mi ricordi io (e la lista di imbroglioni è davvero lunga eh...). Tranquilli, non è un post sulla campagna elettorale, per quella bastano gli agghiaccianti manifesti che mi scorrono davanti agli occhi tutti i giorni mentre giro in bicicletta, ma su un libro che parla del posto in cui abito, "Muori Milano muori!" di Gianni Miraglia. La cosa strana è che lo sto leggendo, quindi non ho tutti gli elementi per farne una recensione corretta - un po' come parlare di un disco dopo aver sentito solo il lato A -, ma mi va di raccontarvelo e consigliarvelo lo stesso. Principalmente perché, sebbene sia ambientato di qualche anno nel futuro (poco prima dell'apertura dell'Expo 2015, con un Berlusconi appena morto), mi racconta la Milano del presente, quella dell'inquinamento a livelli record ma che costruisce il giardino verticale (e come si visiterà, con le corde da arrampicata?), quella della disoccupazione sempre più alta, della piazza da intitolare a Craxi, dell'immigrazione selvaggia e senza nessun tentativo di integrazione, quella della polizia ovunque e delle ronde e dei manganelli, dei locali chiusi perché è meglio non rompere le palle e stare a casa, della casbah di Via Padova, dei grandi manager e dei designer. Insomma, la Milano da bere anni Ottanta che risorge, la Grande Oliva, la città dell'aperitivo, che si avvicina a enormi falcate al suo appuntamento più importante, 'sto cazzo di Expo 2015, travolgendo tutto quello che trova sul suo cammino, perché tutto è sacrificabile.
L'odore di merda che è una costante del libro di Miraglia e che caratterizza la storia quasi in ogni momento - colpa di un guasto alle fognature, ma pure della quantità di concime usato per le nuove aree verdi e del caldo di uno strano aprile - me lo sento anche io nelle narici tutti i giorni, mi perseguita da pagina uno e non capisco se è un buon segno oppure no. La lettura però, nonostante un senso d'ansia di fondo che me la rende faticosa (e questo è un ottimo segno), scorre abbastanza rapida e regala momenti di grande piacere. Addirittura godimento personale quando l'autore scopre ulteriormente le carte - lo aveva già fatto col primo romanzo, intitolato "Six pack", come il pezzo dei Black Flag. A un certo punto, uno dei personaggi, l'ex-assicuratore impazzito che vende merce usata/rubata dietro alla stazione, ricorda al protagonista alcuni amici americani licenziati a causa del fallimento della Bevis Co. e snocciola cinque nomi: Jonathan Richman, Terry Hall, Richard Lloyd, James Osterberg e Johnny Genzale. Ovvero: Modern Lovers, Specials, Television, Iggy Pop e Johnny Thunders, nell'ordine. Che questa lista, poi, si trovi (casualmente?) tra le pagine 76 e 77, non fa che allargare il mio sorriso. Vado a leggermi le restanti 100 pagine, poi magari vi racconto il resto...

venerdì 8 aprile 2011

beastie boys


La storia dovreste conoscerla tutti: "Hot Sauce Committee pt.1" doveva uscire nel 2009, poi rimandato a data da destinarsi a causa della malattia di MCA, e finalmente annunciato per il mese prossimo. La "pt.1" è diventata "pt.2" ma poco importa, le differenze non dovrebbero essere sostanziali, giusto alcuni piccoli accorgimenti. Tipo che "Bundt Cake" non è più in scaletta, sostituita da "Make Some Noise", primo singolo annunciato di cui trovato uno spassoso trailer anche in internet. E la tracklist ha subito qualche rivoluzione qua e là, difatti pare più corta di tre canzoni...
Tutto questo perché ieri, sistemando il delirio di casa in cui vivo, ho ritrovato una vecchia Moleskine in cui avevo annotato le mie impressioni sull'album dopo essere stato a Londra ad ascoltarlo - e a intervistare i Beastie Boys, come da articolo uscito sull'ultimo numero di Groove. Mi ricordo la perquisizione stile "aeroporto dopo attacco terroristico", compresa di metal detector e iPod manovrato direttamente da un addetto. Sfogliando le pagine dell'agendina riscopro oggi che "OK" ha un sapore quasi post-punk, "Too Many Rappers" ospita Nas e si lamenta del fatto che nella scena hip hop ci siano troppi rapper e pochi MC, che "Lee Majors Come Again" è un pezzo rap con una base punk ricca di synth, che "Here's A Little Something For Ya" e "Crazy Ass Shit" sono classici pezzi alla Beastie Boys. Pochissimi altri appunti sull'album, un paio di asterischi piazzati dopo due titoli che chissà mai cosa volevano dire e qualche spunto da discutere coi tre musicisti poco dopo, ovviamente disatteso dalla loro adorabile cazzonaggine. Ai Beastie Boys regalo, come benvenuto, una copia del libro con le ristampe della fanzine T.V.O.R. e quindi, con loro in preda a eccitazione, passiamo dieci minuti buoni a parlare di hardcore e "old school". Nella mezzora totale a mia disposizione troveranno il tempo di fare freestyle invece che rispondere alle domande, chiedermi di spiegargli alcuni modi di dire tipicamente italiani come "stai all'occhio" e, ovviamente, fare un paio di foto ricordo.

mercoledì 6 aprile 2011

la prima volta


Qualche anno fa ormai, se non ricordo male per il numero 50 di Rock Sound, avevamo organizzato una specie di questionario per redattori e collaboratori, con tanto di fotografie e risposte da spiritosoni. Una delle domande riguardava il primo disco comprato in assoluto, una di quelle cose che non si dovrebbe scordare mai. Nel mio caso, per esempio, si tratta di "(I'm) Stranded", LP d'esordio degli australiani Saints, uno dei massimi capolavori del punk rock, imprescindibile in qualunque discografia che si rispetti. Non mi ricordo il motivo per cui, una volta entrato da Valerio, il negozio di dischi in centro a Biella, decisi di comprare proprio quello. A dieci anni, e senza nessuna cultura musicale, ero solo intenzionato a comprare un disco punk, come quelli che avevo visto in tv nel servizio di Odeon. Sono certo che la mitica "Punk collection", compilation venduta a "3.500 lire, special punk price", come recitava la copertina (e di cui parlerò più diffusamente in uno dei prossimi post), mi stava occhieggiando dagli scaffali dedicati alla nuova musica, ma io mi lasciai convincere dalla foto meno punk in assoluto: quattro ragazzi vestiti tutto sommato normalmente (il bassista capellone, addirittura con camicia e cravatta nera da impiegato) e che non promettevano chissà che. E così "(I'm) stranded" è finito tra le grinfie della mia fonovaligia, ereditata da mio zio e con una qualità audio terribile, e ha dato inizio a una passione per i Saints che dura ancora oggi senza il minimo cedimento. Poche cose mi sembrano più belle di quella canzone e di quell'album, e ciclicamente la copia arata di quel disco ritorna sul piatto a tenermi compagnia. Oggi per esempio, sebbene in versione mp3 e sul computer in ufficio.


mercoledì 16 marzo 2011

di tutto di più pt.2


Chi frequenta questo blog fin dagli inizi, magari si ricorderà di un post in cui raccontavo la prima volta in cui sono entrato in Rai a Milano. Bene, oggi è stata la seconda e, senza che diventi un'abitudine, quella di rendervi partecipi di ogni mia visita in Corso Sempione, non posso esimermi dal fare un breve resoconto dell'ora trascorsa nei meandri di mamma Rai. L'occasione arriva inaspettata e consiste nel parlare brevemente del rapporto tra le scarpe della Dr. Martens e le sottoculture giovanili, quindi skinheads, mods, punk e via dicendo. Insomma, la mia partecipazione a tre minuti di un programma intitolato "Glam" - in onda martedì prossimo a mezzanotte sul secondo canale - è indolore e me la cavo in poco tempo e senza rifare troppe volte. Il motivo reale di questo post, quindi, sta nell'ambientazione usata per le mie riprese, ovvero il magazzino in cui sono custoditi tutti i vinili - 33 e 45 giri - spediti alla Rai nel corso degli anni, a occhio e croce dai Cinquanta in avanti. Per i primi dieci minuti soffro di sindrome di Stendhal e non posso credere alla quantità di dischi che mi circonda, poi cerco di mostrarmi professionale e di dare retta a quello che l'autrice del programma e i cameramen cercano di dirmi. Impossibile, il collo e la testa si girano naturalmente verso le pareti di vinile e occhi e dita scorrono senza sosta alla ricerca di qualche chicca. Dopo aver scoperto che gli album e i singoli sono semplicemente divisi per etichetta discografica (e in nessun ordine alfabetico, per cui capita di trovare due cofanetti di Luciano Berio accanto a Califano e Cocciante) - un metodo demenziale che fa il paio con quello di un mio caro amico che sistema(va) i 33 giri a seconda del colore della costina - cerco di districarmi in mezzo a quel casino assurdo: per caso incoccio nella discografia completa dei Chrisma e trovo persino un 12" promozionale di "C-Rock" che mi fotterei all'istante, ma il momento clou arriva quando intravedo un cartello che mi segnala la sezione dei dischi della Stiff Records, label di cui ho appena parlato nel mio programma radio. In preda a una controllata esaltazione tiro fuori nell'ordine le raccolte "Stiff Live" e "Heroes & Cowards" e i dischi di Ian Dury, Wreckless Eric, Damned, Nick Lowe e "My aim is true" di Elvis Costello. Sulla copertina, in pennarello, è evidenziata "Alison" come canzone consigliata. Sul retro, invece, per chi avesse dubbi, è specificato il genere musicale: vocal rock! Me la rido da solo, interrotto dal regista che mi spiega le inquadrature e, con assoluto candore, mi dice: "dai, ci torniamo un'altra volta qui, tanto di questo posto non frega niente a nessuno, è praticamente abbandonato...".

martedì 1 febbraio 2011

il grande complotto


Prima di occuparsi unicamente di pettegolezzi, ricoprirsi di tatuaggi orrendi che manco un rapper scemo e prendersi a ceffoni in televisione con Sgarbi, Roberto D'Agostino si divertiva persino a firmare degli interessanti servizi per Mister Fantasy. Esattamente come questo assurdo reportage sul fantomatico Great Complotto di Pordenone, una delle cose più interessanti mai prodotte in Italia a livello di comunicazione e di musica. Al di là della (indubbia) valenza artistica di gruppi misconosciuti e dai nomi bizzarri come - o apprezzati solo dai cultori - come 001 Cancer, Waalt Diisneey Production, Mess, Sexy Angels o Andy Warhol Banana Technicolor, fare un paragone con la pochezza attuale è quasi impietoso (tacendo ovviamente della mostruosità della RAI targata 2011). Perché, come ricordavano i Tampax, "Pordenone può essere Londra, ma Londra non potrà mai essere Pordenone"...

venerdì 28 gennaio 2011

lezioni di storia



Vedere il trailer di questo documentario sulla scena di Los Angeles che si preannuncia quantomeno interessante, mi ha fatto tornare alla mente l'incredibile serata in cui sono uscito a cena con i Meat Puppets. Uno di quei momenti irripetibili, frutto di strane combinazioni, come quella che aveva catapultato i tre di Phoenix nel buco del culo del mondo, ovvero un minuscolo paese del nord Italia - Valdengo, in cui si sarebbero esibiti la sera successiva in una discoteca affittata per l'occasione. Il promoter e futuro proprietario del Babylonia, Aldo, all'epoca aveva un negozio di dischi nella vicina Biella ma segretamente cominciava a cullare l'idea di aprire un locale dedicato alla musica rock dal vivo. Il primo passo fu cominciare a organizzare concerti qua e là e Dio solo sa come si trovò con i Meat Puppets tra le mani e me come accompagnatore/traduttore della band. Io? Avevo consumato i loro primi due dischi soprattutto, li consideravo uno dei gruppi più sottovalutati della SST e non vedevo l'ora di vederli dal vivo. Certo non pensavo che sarei finito a cena con loro, seduto di fianco a Cris Kirkwood, il più ciarliero dei due fratelli, e a un tizio bassotto e scuro di pelle. Dopo due ore di chiacchiere e racconti, a cui spesso partecipava anche il bassotto infilando aneddoti, mi permetto di chiedergli come si chiama: "My name is Spot". In pratica, l'uomo che ha forgiato il suono della SST, di Black Flag, Minutemen, Hüsker Dü, Meat Puppets ovviamente. Di fianco a me, la leggenda. La prima serata finisce tardissimo, con la promessa di vederci il giorno dopo: i tre, davanti a un pubblico che definire sparuto è fin troppo poco, regalano un'ora di grandissimo rock, con un paio di chicche finali: un brano tratto dal loro primo delirante EP e "Fuck You" dei Feederz come bis conclusivo. I Meat Puppets sono di fretta, ripartono direttamente dopo lo show per la prossima data, su un furgone che ha l'aria di non aver mai visto una revisione in vita sua. Resto lì a salutarli con il volantino del concerto che Cris mi ha ficcato in mano prima di abbracciarmi e salire con gli altri della band. Lo guardo e ci leggo sopra: "Stevie baby, you rocked my fuckin' world!". Anche tu Cris, anche tu...

venerdì 21 gennaio 2011

DEVO-ti



La mia passione per la band di Akron, tute gialle e cappelli a Ziqqurat compresi, non è un gran mistero, quindi un post dedicato ai Devo è quasi una consuetudine da queste parti. L'altro giorno, finalmente, mi è arrivata una copia dell'album "Devotees", uscito per la Rhino alla fine degli anni Settanta, subito dopo l'esordio dei cinque, il leggendario "Q: Are we not men? A: We are Devo!". Per celebrare quell'album, l'emittente losangelina KROQ, quella del mitico deejay Rodney Bingenheimer, si inventò un concorso per band locali, invitandole a coverizzare un pezzo di quel disco. I dodici migliori sono quelli che appaiono su "Devotees", piccolo campionario di follie che rende omaggio a un gruppo rivoluzionario: non ci troverete nessun gruppo famoso ma una manciata di geniali dilettanti che rilegge con passione alcuni episodi di "Are we not men?" in modo stravagante, lo-fi, ma quasi sempre ricco di spunti. E se i View scelgono di riproporre quasi pedissequamente "Uncontrollable urge" (così come i Doguloids con "Blockhead", unica concessione al secondo lavoro, "Duty now for the future"), i Deadliners invece stravolgono "Mongoloid" fino a farla diventare una marcetta da fiera di paese; "Jocko homo" in mano a Lonnie And The Devotions diventa un brano doo-wop, "Space junk" si trasforma in mezzo minuto di rumori e rutti con Y-22, la stupenda "Gut feeling" sembra arrangiata dai Residents invece che dai Bohonian Plimquins... Il premio come miglior cover però se lo aggiudicano i Touch Tone Tuners, i quali reinventano "Jocko homo" utilizzando solamente una voce filtrata e il rumore prodotto dai telefoni a tasti (touch tone, appunto). Puro genio! Se volete provare il brivido, ecco un link dove trovarlo (http://punknotprofit.blogspot.com/2010/04/kroq-fm-devotees-album-tribute-to-devo.html). Buon ascolto.

giovedì 20 gennaio 2011

musica elettronica?



"Secondo me dovresti ascoltare musica elettronica!".
C'è stato un periodo, nel 1977, in cui l'acquisto dei dischi era competitivo, tra me e mio fratello. I pochissimi soldi di cui disponevamo spesso venivano uniti per un disco collettivo - 500 lire per un singolo, 2500/3500 per un LP a seconda che fosse stampa italiana o estera - ma la smania del possesso cominciò presto a farsi strada nelle nostre menti bacate. Per esempio,ricordo "Everyone's a winner" dei London - un gruppo punk in cui militava Jon Moss, in seguito batterista dei Culture Club e fidanzato di Boy George - il 45 giri per cui spasimavo brutalmente: provai a ricomprarlo a mio fratello svariate volte, offrendogli ben oltre le 500 lire che era costato, e questo nonostante i nostri dischi fossero in comune sullo stesso scaffale. Era una questione di semplice possesso, come ho spiegato prima, di poter dire "è mio". Tra l'altro, ora quel 7" "è mio", ne ho comprata un'altra copia nel corso degli anni, ce l'ho pure in digitale, non si sa mai...
Io, comunque, avrei dovuto ascoltare musica elettronica, ampliare i miei orizzonti, smetterla di fissarmi col punk, le spille da balia, i vestiti stracciati, i nomi come Rotten o Vicious.
"Compra i Kraftwerk".
Senza nemmeno sapere chi fossero, mi faccio accompagnare da Valerio (avevo dieci anni, dovevo aspettare che mia mamma mi ci portasse), negozio di dischi biellese, e torno a casa con una copia di "Radioactivity". Lo metto sul piatto della fonovaligia di mio zio, l'unica in dotazione per ascoltare i vinili, e scopro che in Germania quattro signori vestiti in giacca e cravatta suonano le tastiere e delle percussioni strane e parlano di radioattività, madame Curie, ohm. È bellissimo, è la seconda rivoluzione della mia vita, dopo quella di "Anarchy in the UK". Dura pochissimo però, a causa di un particolare non proprio secondario: né io né mio fratello (lo stesso che mi aveva spinto ad ampliare gli orizzonti) conosciamo altri nomi di gruppi o artisti di quel genere. La mia collezione finisce miseramente con un totale di un LP, incrementata l'anno successivo dalla cassetta di "Trance Europe Express", sempre dei Kraftwerk, che ci regalano assieme allo stereo nuovo di zecca regalo dei nostri genitori. Nel frattempo, ho comprato il mio primo vero 33 giri punk, "(I'm) Stranded" degli australiani Saints, un capolavoro senza tempo. Mio fratello me lo invidia tantissimo e qualche volta ce lo ascoltiamo assieme dimenticando per quasi quaranta minuti chi sia il proprietario.

giovedì 13 gennaio 2011

frammenti di vita



In attesa di un'illuminazione e di qualche episodio divertente e di cui valga la pena parlare, tanto per tenere calde le dita ecco a voi un riassunto dei miei ultimi 15 giorni musicali. Era un po' di tempo che non compravo così tanti dischi, vecchi e nuovi, e il recente viaggio a Marsiglia ha contribuito anche a farmi ritornare la voglia di spulciare tra i vinili di un negozio dell'usato con una selezione che non comprenda solo Dalla, Baglioni, De Gregori, Queen, Michael Jackson e Supertramp. Ovviamente a dieci euro l'uno perché "sai, sono dischi vecchi, non li fanno più". Non li fanno più perché ne hanno venduti 30 milioni di copie e quindi anche mio nonno ne ha una in casa, dovresti essere tu a pagarmi per portare via "Breakfast in America" e "Thriller"...
Beh, tornando a Marsiglia, la spesa è stata ricca e discretamente contenuta, un centinaio di euri per una dozzina di dischi, nulla di realmente raro o incredibile ma buone copie di Roxy Music, Patti Smith Group, Iron Butterfly e Brian Eno, tanto per dire. Quanto basta per appuntarsi mentalmente gli indirizzi dei negozi e progettare un nuovo viaggio quanto prima.
Al ritorno a Milano, solito giro dai pochi spacciatori di vinile e qualche piccola chicca tipo "Rituals", 12" dei Bush Tetras e un Dream Syndicate sigillato. Oltre a Dalla, Baglioni, De Gregori, Vasco Rossi... Un giorno farò un post su quali sono i tre dischi che puntualmente non mancano da nessun rivenditore di vinili. A pensarci bene, al momento credo che nessuno batta Edoardo Bennato con la tripletta "Uffà uffà", "Sono solo canzonette" e "È arrivato un bastimento". Fra un po' ne compro una copia per sfinimento.
Per chiudere un paio di segnalazioni che faccio di cuore e gusto. La prima va alla splendida ristampa di tutto il materiale inciso dai Detonazione, gruppo di inizio ottanta di Udine, uscita per la Sometimes Records di Roma: post-punk spigoloso e con un grande sax in evidenza, cantato in italiano e una media compositiva molto alta per il periodo. Inutile ricordare che i dischi originali sono introvabili. Fatevi il favore e procuratevelo (magari anche con quello degli Starfuckers, altra pregiatissima ristampa sempre targata Sometimes). Per informazioni: www.sometimesrecords.com
L'altra segnalazione di merito va a un gruppo milanese (almeno di adozione) in cui militano un Fine Before You Came e una ex Agatha - che poi sono gli unici due che conosco personalmente direi, gli altri arrivano da Dummo e Hot Gossip - e che si chiama Verme. Lo trovate qui (http://verme666.wordpress.com), insieme a tre EP in download gratuito, tutti molto belli e consigliati. Le copertine digitali di questi dischi che non esistono (forse solo su cassetta?) sono degli omaggi ad altrettante band e album che denotano buon gusto, umorismo e lampi di genialità.
Il primo disco, "Un verme resta un verme" è un ripoff di GI dei Germs - io avrei momentaneamente chiamato il gruppo Verms e intitolato il disco "VI", Verms Incognito, ma chissenefrega direte voi. Il secondo si chiama "Vai Verme vai" e scippa la cover a "Boys don't cry" dei Cure, primo disco americano del gruppo di Robert Smith e infine l'ultimo, roba di qualche giorno fa, è "Bad Verme", con chiaro richiamo al logo dei Bad Religion. Insomma, in Italia succedono anche belle cose oltre a quelle che tutti conoscete bene.