venerdì 17 dicembre 2010

24 ore per la vita

Avete presente "American hardcore", libro (fondamentale) e poi film (divertente) di Steven Blush? Bene, se l'argomento vi stuzzica e avete voglia di approfondire, ecco un bel link che vi terrà svegli per... 24 ore! In così tanto tempo ci stanno centinaia di pezzi hc, 911 per la precisione (l'avrà fatto apposta???), più di quanto sia umano sopportare forse. Decidete voi, Blush ha solamente messo in ordine alfabetico un patrimonio inestimabile di musica punk americana, tutto in streaming per il vostro/nostro piacere.
Qui: http://www.americanhardcorebook.com/punk24/
Ci risentiamo tra un po'.

giovedì 16 dicembre 2010

Vecchio, diranno che sei vecchio


La rivincita dei vecchi? Chi lo sa, fatto sta che il nuovo disco di Keith Morris e dei suoi Off!, sorta di supergruppo hardcore che comprende anche Dimitri Coates (Burning Brides), Steven McDonald (Redd Kross) e Mario Rubalcaba (Hot Snakes, Rocket From The Crypt), sta già suscitando parecchie reazioni davvero poco comprensibili. Passi l'incredibile smacco di vedere un disco come questo pubblicato dall'etichetta legata alla rivista Vice - sublime bersaglio per chiunque sia devoto all'antifighettismo -, su cui però duole dirlo si trova una buona parte delle cose più interessanti che si possano leggere ultimamente, ma il fatto che sia pure possibile che Morris e amici possano anche farci dei soldi, quello proprio no. Come osano 'sti quattro vecchi? L'occasione ce l'hanno avuta anni fa, quando nessuno se li filava, ogni loro concerto finiva a botte con la polizia e l'hardcore aveva più o meno la stessa forza commerciale de Il Campanile, il quotidiano di Mastella. Ora che invece magari si intravede la possibilità di alzare qualche dollaro - che poi immaginate quanti se ne possano tirare su con dischi del genere -, si beccano pure l'infamante accusa di essere dei venduti. È un mondo di merda, lo sappiamo...
Al di là di tutte le diatribe, però, resta il fatto che il disco è godibilissimo e divertente, copia carbone dei Black Flag (quelli con Morris alla voce, ovvio) fin dal titolo, ha una copertina strepitosa opera di Raymond Pettibon, altro venduto che ha osato persino esporre delle opere in alcuni musei, e vale i soldi spesi per comprarselo in edizione limitata, composta da quattro singoli. Mi cambia la vita? Nemmeno per sogno, per quello ci vorrebbe una vincita al Win For Life, ma di quale disco posso dirlo nel 2010? Effetto nostalgia? Poco ma sicuro, ma fa parte del gioco, ognuno sceglie a quale partecipare, l'importante è conoscere le regole. E quelle dell'hardcore, fatevene una ragione, Keith Morris e i suoi amichetti le conoscono meglio di tutti voi perché le hanno inventate. Capito?

discogs


Un post di pubblica utilità, soprattutto mia. Ho cominciato a vendere alcuni pezzi della mia collezione di vinili, altri ne seguiranno, presto o tardi vorrei riuscire a rendere la cosa un po' più professionale e meno dilettantesca. Intanto se vi piacciono i dischi comprateli o spargete la voce.
qui trovate la merce:
http://www.discogs.com/sell/list?seller=tvaddict
fatevi sotto bambini.

giovedì 18 novembre 2010

anarchì in sicily


Riprendo dal blog del mio caro amico Michele questo clip che racconta "the most incredible fashion town in Sicily". Al trentunesimo secondo appare Filippo, che nel suo "briscola casual style", indossa una t-shirt che dovreste conoscere molto bene. Jamie Reid e i Sex Pistols ne saranno orgogliosi...

lunedì 15 novembre 2010

canzoni che valgono una carriera pt.1


Era un po' di tempo che volevo fare un post del genere, o meglio iniziare un appuntamento settimanale con dei post a tema, dedicati, come da titolo a quelle canzoni che da sole valgono un'intera carriera. Non sto parlando necessariamente di "one hit wonders", cioè meteore che hanno fatto un pezzo famoso e poi sono scomparse, non sempre le cose coincidono. Semplicemente ci sono dei gruppi, per me quanto meno, che identifico sempre e comunque con un brano e basta, sebbene abbiano una media o lunga carriera, abbiano inciso altre cose meritevoli, dimostrando di meritarsi fama e successo. Non è un'accusa quindi, solo un modo per segnalarvi settimanalmente una serie di canzoni che dovreste a tutti i costi sentire una volta nella vita, perché di qualità eccelsa.

1- SUGARCUBES "Birthday" (1988)
Ho un ricordo confuso di loro, dal vivo a Torino, con Björk che lanciava mandarini al pubblico e sorrideva tutta contenta. Mi pare di essermi divertito molto, sicuramente di più che a Reading l'anno dopo, a mollo nel fango e con la band all'opera coi pezzi del secondo disco, decisamente meno interessanti dell'esordio.
Björk, prima dei Sugarcubes aveva cantato nei Tappi Tikarras - una new wave sbilenca e abbastanza interessante - e nei Kukl, che avevano inciso due dischi per la Crass Records, pensate un po'. Poi, d'improvviso, i Sugarcubes, prima in islandese e poi in inglese. "Birthday" anticipa l'uscita di "Life is good..." su One Little Indian ed è subito centro pieno, un pezzo così perfetto che non te lo immagineresti suonato in altro modo. Come sia diventato una piccola hit lo sanno solo gli inglesi che sono maestri nel cogliere il sublime all'interno della musica pop: sì, perché tra spigoli, strani tempi di batteria e una tromba quasi urticante, "Birthday" è pura maestria pop, altamente struggente e con un testo che rivela per la prima volta la fantasia della cantante e la sua abilità nell'evocare immagini infantili e al tempo stesso quasi sinistre e disturbanti. Prendetevi quattro minuti liberi e ascoltatela, anche in questa versione live che non rende del tutto giustizia allo splendore di quella registrata in studio (che non trovate su YouTube per questione di diritti), ma che ci arriva molto vicino.

damaged goods


Che effetto fa sentire "Natural's not in it" dei Gang Of Four, uno dei più politicizzati gruppi del post punk britannico, nella pubblicità di Microsoft Kinect? Ce n'era proprio bisogno? Chi lo sa, magari in questo modo si sono assicurati la pensione, ma un filo di tristezza rimane lo stesso.



venerdì 29 ottobre 2010

l'ultimo disco dei mohicani

Chiunque sia appassionato di vinili, tanto per restare in tema con un mio post di qualche giorno fa, probabilmente conoscerà il negozio di dischi Backdoor di Torino, uno dei pochi a resistere al logorio della vita moderna. Uno dei soci, per chi non ne fosse a conoscenza, è Maurizio Blatto, storica firma di Rumore (fateci caso, le sue cose sono sempre le migliori), "penna felice" (op. cit.) e dotato di uno humour efficacissimo. Per un certo periodo ho anche avuto il piacere di collaborare assieme a lui alla stessa fanzine, Football Mad, interamente devota al calcio e concepita con uno spirito punk DIY che la rendeva, secondo il mio modesto parere, un gioiellino. Per quell'esperienza, Blatto regalò alcuni pezzi strepitosi, tra cui il mio preferito, ovvero "il test per scoprire che tipo di tifoso sei" o qualcosa del genere (non possiedo più il numero con quell'articolo, chissà se Internet fa il miracolo?). Risate garantite, come quelle che mi sono fatto oggi tornando a casa con il passante ferroviario e il suo nuovo libro, "L'ultimo disco dei mohicani", immedesimandomi per un istante in uno dei freak con cui pare aver quotidianamente a che fare. All'interno del libro, oltre a una collezione di deliranti richieste, tutte vere, che gli hanno fatto in negozio nel corso degli anni - le potete anche leggere qui: http://www.backdoor.torino.it/?cat=5 -, troverete proprio la storia di Backdoor, fatta di personaggi che bazzicano il negozio come Mimmo Regghe, il Quotidiano, il Frocio Reale e altri, ma anche di riflessioni spassose sul collezionismo e sulla musica in generale. Il mio regalo perfetto per Natale...

lunedì 25 ottobre 2010

black hole

A novembre uscirà una compilation prodigiosa a cura del sommo Jon Savage, "Black hole", dedicata alla scena punk californiana tra il 1977 e il 1980. Dentro troverete tutti i classici di quel periodo - se siete fan probabile li abbiate già, se no è la manna dal cielo -, da Avengers a Dils, passando per Germs, Sleepers, Bags, Screamers, Urinals, Middle Class, Fleasheaters e via di 'sto passo. Stranamente (questione di diritti?) mancano i Nuns di Jennifer Miro e Alejandro Escovedo e così aggiungo io un loro pezzo tanto per completare la faccenda. A tal proposito, io e Mox abbiamo appena registrato una puntata di No Control, il nostro programma radio quindicinale, proprio su questo disco e sulla scena in questione. Andrà in onda domani 26 ottobre su www.linearock.it alle 12 e alle 18 e anche giovedì 28 sempre alla stessa ora. Dateci un orecchio e fatemi sapere cosa ne pensate...

giovedì 21 ottobre 2010

cos'hai nella borsa?


Molti di voi lo conosceranno già, ma mi pare obbligatorio segnalare "What's in my bag?" a chi non l'avesse mai visto. Di cosa si tratta? È molto semplice: Amoeba di Los Angeles (nella foto), uno dei negozi di dischi migliori del mondo - chi ha avuto la fortuna di passarci almeno una volta capirà la mia sindrome di Stendhal ogni volta che ci sono entrato -, frequentato da emeriti sconosciuti ma, spesso, anche da celebrità, registra dei piccoli episodi di questo format semplice ma molto interessante. Il personaggio famoso di turno seleziona i dischi che si comprerà di lì a poco e poi li mostra al pubblico motivando le proprie scelte. Capita quindi di trovare Simon Le Bon e John Taylor che comprano vinili di Clash, Devo, Neu!, Patti Smith, PIL e King Crimson oppure Elijah Wood, mister Frodo in persona, che parla di Gal Costa, Raincoats e 13th Floor Elevators, e ancora Dave Grohl che seleziona solo singoli di hardcore punk. Sul sito di Amoeba (http://www.amoeba.com/whats-in-my-bag/index.html#/page1) ci sono ben 130 artisti più o meno celebri e per tutti i gusti che discutono con passione e competenza della musica che amano, molto spesso con dei bei vinili in mano: da Pink Eyes dei Fucked Up agli X, dalle Slits agli Horrors e poi Salt'n'Pepa, Dinosaur Jr., Ben Stiller, Eli Roth, Noel Gallagher, Mos Def, Afrika Bambaataa e decine di altri. Non mi viene in mente un metodo migliore per ricordare a tutti quanto è bello entrare in un negozio di dischi e perdere una giornata intera a sfogliare dischi e decidere quali comprare. Certo, se abitassi a Los Angeles e non a Milano...

ciao Ari


non ho niente di niente da dire, è scritto tutto qui sotto...

http://pitchfork.com/news/40465-rip-ari-up-of-the-slits/


lunedì 18 ottobre 2010

Il mio nome è Crass


"They said that we were trash

Well the name is Crass not Clash

They can stuff their punk credentials

Cause it's them that take the cash

They won't change nothing with their fashionable talk

Their RAR badges and their protest walk

Thousands of white men standing in a park

Objecting to racism like a candle in the dark"


Pensare a un tribunale che dirime le questioni legali dei Crass è un segno dei (brutti) tempi in cui viviamo. Un po' come quando Jello Biafra e i restanti Dead Kennedys si scannarono per anni tra avvocati e giudici. Anarchy, peace and freedom is what I want (se si eccettua la mia fetta di diritti d'autore e di soldi).


Leggete l'intervista di Vice e fatevi la vostra idea...

www.viceland.com/it/a6n8/htdocs/anarchy-and-peace-litigated-490.php?page=1

venerdì 1 ottobre 2010

stupidity

Lo sapete tutti, certe mattine sono meglio di altre anche se, per esempio, oggi piovigginava e il traffico di Milano istigava un Michael Douglas de noantri col fucile a sterminare gente a caso. A mezzogiorno però il corriere mi ha recapitato un pacco con il DVD "Oil City Confidential" (anche con la versione deluxe di "Station To Station" di David Bowie, ma è un'altra storia. La biografia di Cheetah Chrome chissà quando arriva...), documentario di Julien Temple sui Dr. Feelgood, ovvero uno dei gruppi più criminalmente sottovalutati della storia, almeno fino a qualche mese fa quando è diventato cool citarli ogni due frasi. Gente che fino al giorno prima pensava che Dr. Feelgood fosse il titolo di un disco (di merda) dei Mötley Crüe e non il gruppo di Wilko Johnson. Tant'è...
Il film non l'ho ancora visto - ogni tanto mi tocca lavorare e quindi il tempo è quello che è - ma non è mia intenzione fare una recensione, sono certo che da quel che ho letto, visto e sentito, io passerò 106 minuti di godimento estatico. Mentre firmavo la ricevuta del pacco però, mi sono ricordato, in un flashback dall'adolescenza, di quando io e mio fratello ascoltavamo il loro disco dal vivo, "Stupidity", sullo stereo in camera sua e io, seduto sul letto, azzardavo un rudimentale air drumming. Ogni volta che partiva "Roxette", mio fratello si premurava, a metà canzone, di ricordarmi che c'era un cambio di tempo, per evitare che sbagliassi. Anche a distanza di giorni o di mesi o di anni. Anzi adesso me lo riascolto, ma faccio la parte di chitarra, come quel dio di Wilko. Sì lo so che c'è il cambio di tempo...


tracce di rossetto

Nuova edizione italiana riveduta e corretta - la prima è del 1991 mi pare - per "Lipstick traces" di Greil Marcus, che racconta in maniera entusiasmante "una storia alternativa del XX secolo, attraverso le avanguardie e quello che hanno rappresentato nell'evolversi della cultura contemporanea: dal Cabaret Voltaire ai Sex Pistols". Proprio sul gruppo di Johnny Rotten, Marcus scrive alcune delle cose più interessanti e azzeccate, analizzando il fenomeno punk attraverso i quattro singoli licenziati dalla band ("Anarchy in the UK", "God Save the Queen", "Pretty Vacant" e "Holidays in the Sun"): "I Sex Pistols sono stati una proposta commerciale e una minaccia culturale, sono stati lanciati per modificare il business della musica e fare i soldi su questo cambiamento... ma Johnny Rotten cantava perché voleva cambiare il mondo! (...) Lo shock prodotto da quella musica è diventato lo shock della consapevolezza che un avvenimento tanto eclatante sia stato completamente ignorato dal business. La musica tenta di cambiare la vita; la vita va avanti; la musica viene lasciata indietro; questo è quanto". E ancora: "Considerate le rivendicazioni che faceva al mondo, un disco dei Sex Pistols avrebbe dovuto cambiare il tuo modo di prendere il treno per andare al lavoro, cioè avrebbe dovuto mettere quest'azione in rapporto con tutte le altre, e poi rimettere in discussione l'intera faccenda. Così il disco avrebbe cambiato il mondo". Vi vedo perplessi. Ma "Anarchy in the UK", una critica della società moderna in tre minuti con quell'attacco che vale intere discografie ("'Io sono l'Anticristo' sono le parole più potenti che io conosca", ricorda lo stesso autore), ha mutato anche solo per un istante il mondo circostante o tutto è restato immobile, nonostante lo sconquasso causato dalla sua pubblicazione su 45 giri e il bailamme creato dai Sex Pistols? La domanda che sta alla base del libro, ovvero "è sbagliato ritenere i Sex Pistols uno dei più grandi eventi della storia?", funge da stimolo per una disamina dei più importanti movimenti artistici e d'avanguardia del Novecento, dal Lettrismo, al Dada al Situazionismo, fino al punk (minuscolo?), e finisce per diventare strada facendo una questione oziosa e provocatoria, una non-domanda (e tenete conto che Marcus ne parla e si interroga prima del celeberrimo Filthy Lucre Tour del 1996, la reunion che ha visto i Pistols di nuovo sul palco assieme). Ascoltandoli oggi mentre scrivo queste righe, sfoderando un vinile gracchiante che non usavo da tempo immemore, mi associo entusiasticamente a Marcus nel ritenerli un avvenimento di fondamentale importanza per la storia. Loro come le decine di epigoni, quelli scarsi e quelli geniali, famosi e sconosciuti, le migliaia di punk band che prima in Uk e Stati Uniti e poi nel resto del mondo hanno contribuito a mutare il modo in cui io (ma non solo, ovviamente) prendo il treno, citando la frase di cui sopra. "Quando si ascoltano questi dischi ormai finiti tra i fondi di magazzino, sullo scaffale delle occasioni, nei negozi per collezionisti, nei mercatini delle pulci, ci si meraviglia di scoprire quanto quella musica sia bella, quanto sia ancora attuale". Appunto.

martedì 14 settembre 2010

no control


Dalla prossima settimana ricomincia la trasmissione radio mia e del buon Mox, No Control. La potrete ascoltare in streaming sul sito www.linearock.it, esattamente come la scorsa edizione. Appena ho ragguagli sul giorno in cui andrà in onda ve lo faccio sapere. Intanto, per celebrare il ritorno radiofonico del punk, ecco una vecchia intervista a Glen Matlock che ho fatto qualche anno fa, riveduta e corretta. Lui era in Italia con i Dead Men Walking (ah l'ironia...), gruppaccio che comprendeva anche altri vecchi eroi come Slim Jom Phantom (Stray Cats), Kirk Brandon (Theatre Of Hate) e Mike Peters degli Alarm, e si è gentilmente prestato per un'oretta dopo il concerto a fare due chiacchiere con me. Seduti per terra, dietro al palco del Transilvania a Milano, ecco cosa ci siamo detti...

Partiamo da questa serata... Sembra che tu e gli altri vi divertiate tantissimo a stare sul palco e riproporre un repertorio ormai classico, che comprende brani di tutte le band in cui avete militato. Come sono nati i Dead Men Walking?

Glen Matlock: Principalmente, sono nati quando abbiamo scoperto di essere amici uno con l’altro. Dopo un rapido giro di telefonate, ho capito che ognuno di noi conosceva gli altri possibili membri della band e quindi è stato molto facile assemblare la line-up e cominciare a provare. È una cosa molto “easy”, un gruppo che vuole far divertire la gente con canzoni che tutti, bene o male, conoscono, Il segreto sta tutto qui. Comunque, tutti noi abbiamo altri progetti: io e Mike suoniamo con gli Alarm, Slim Jim con gli Stray Cats... Ho fatto uscire un nuovo album con i Philistines, l’abbiamo appena presentato dal vivo. Ah, dimenticavo, ci sono anche i Sex Pistols (ride)...

Avete appena finito un tour negli Stati Uniti...

G.M.: È vero, è andato molto bene, ci siamo divertiti parecchio. È un po’ come quando torni a far casino con la tua vecchia gang, non servono parole, ci si capisce al volo...

E dire che, all’epoca, la tua uscita dalla band era stata piuttosto burrascosa...

G.M.: Beh, i giornali hanno esagerato le cose, c’erano tensioni, ma dettate dalla situazione di merda in cui eravamo. E poi Malcolm spingeva per il mio licenziamento perché diceva che non ero in linea col resto della band, visto che mi piacevano i Beatles. Eravamo giovani (ride)...

Visto che dei Pistols si sa praticamente tutto, mi piacerebbe conoscere qualcosa di più delle tue esperienze successive, a cominciare dai Rich Kids.

G.M.: Appena prima di andarmene dai Pistols, Mike Thorne, che era l’A&R della EMI, mi disse che, in ogni caso, gli sarebbe piaciuto avermi come artista sulla sua etichetta. Mi sembrava un’offerta interessante anche se non sapevo ancora che sarebbe successo di lì a poco. La sera stessa in cui ci fu la discussione col resto del gruppo, me ne andai in un pub chiamato Roebuck, dove incontrai Steve New, un amico che aveva anche fatto un’audizione per entrare come secondo chitarrista dei Pistols. Cominciammo a parlare e lui mi presentò Rusty Egan, che suonava quella sera, dicendomi quanto fosse bravo come batterista e che aveva fatto l’audizione per entrare nei Clash. In un attimo avevo già due membri della mia nuova band, senza neppure il nome! Cominciammo a suonare a casa mia, in uno squat, perché non avevamo una lira in tasca, nella speranza di trovare un buon cantante. Il nome Rich Kids arriva da un passaggio del libro “I ragazzi terribili” di Jean Cocteau.

Steve New, però, lo conoscevi da un bel po’ di tempo, no?

G.M.: Aveva fatto un’audizione per diventare secondo chitarrista dei Sex Pistols, come ti raccontavo prima, soprattutto perché Paul pensava che Steve non fosse così bravo (ride). Comunque, vedi com’è strana la vita, Steve lavorava come fattorino alla Warner e aveva ereditato il posto da Rusty! Dopo aver provato un sacco di gente, decidemmo di tenere Midge Ure e scrivere qualche pezzo assieme a lui. A quel punto avevamo già il contatto con la EMI, grazie a Mike, sebbene ci fossero molte etichette sulle nostre tracce: Chrysalis, Polydor, Virgin. Il primo concerto dei Rich Kids successe per caso: eravamo andati a vedere i Police all’Hope & Anchor e, siccome il gruppo spalla non si era presentato, il proprietario ci chiese di fare qualche pezzo. La serata andò benissimo e così cominciò una serie di date in giro per Londra, fino al momento in cui Midge ci disse che non non se ne faceva nulla. Proseguimmo per un po’ con me al basso e alla voce e Mick Jones dei Clash alla seconda chitarra. Appena Midge seppe, qualche tempo dopo, che la EMI aveva pronto un contratto per 150.000 sterline, mi telefonò per dire che ci aveva ripensato (ride).

I vostri primi singoli e l’album furono dei buoni successi...

G.M.: Il singolo d’esordio, “Rich Kids”, è stato una sorpresa anche per la EMI, che non si aspettava tutta questa attenzione, ma l’album è arrivato troppo presto, non eravamo pronti per inciderlo. Non c’era materiale a sufficienza e, soprattutto, c’erano troppi pezzi scritti da Midge... Quella non era la strada che volevo percorrere coi Rich Kids, ma la EMI spingeva per avere un disco fuori al più presto possibile, voleva un’altra punk band, al contrario di quello che desideravo io. Poco dopo la pubblicazione dell’esordio, Rusty e Midge cominciarono a interessarsi al nascente movimento “new romantic” (i due, infatti, saranno protagonisti della scena con i Visage, progetto di Steve Strange, e il solo Midge con la versione elettronica e pop degli Ultravox - nda), di cui a me non fregava un cazzo e questo portò i Rich Kids alla fine del percorso. Mi sarebbe piaciuto fare un secondo album, ma non ce ne fu la possibilità, magari anche continuare assieme a Mick per qualche tempo...

Intanto la tua carriera è proseguita come bassista di Iggy Pop...

G.M.: Dopo lo scioglimento dei Rich Kids non sapevo proprio cosa fare, ma come spesso succede in casi del genere, fu una telefonata inaspettata a risolvere il mio problema. Era il manager di Iggy Pop, Peter Davis, che mi chiedeva se fossi disponibile a fare un tour con lui. Aveva appena inciso “New values” e il bassista di quelle session avrebbe suonato la seconda chitarra durante i concerti, per cui necessitavano di un sostituto. È stato davvero così semplice, sono partito per il tour europeo e qualche tempo dopo sono entrato in studio con Iggy per registrare “Soldier”. Poi ci sono state ancora delle date negli Stati Uniti e basta, ho mollato il lavoro.

Perché?

G.M.: Avevo portato Steve New con me a registrare “Soldier”, a Iggy era piaciuto molto e l’aveva inserito tra i musicisti per quell’album. Steve, però, litigò pesantemente con David Bowie per una storia di donne e Iggy mixò il disco tagliando tutte le parti di chitarra di Steve, una cosa che mi diede molto fastidio. Glielo dissi e me ne andai, anche se, qualche tempo dopo, lo incontrai in un bar a New York e mi giurò che era dispiaciuto per la mia partenza e che ero uno dei suoi bassisti preferiti. In retrospettiva, devo dire che Iggy è una delle persone più professionali con cui abbia mai lavorato in vita mia, a dispetto della sua immagine di animale del rock’n’roll. Poteva essere fatto fino al midollo, ma sul palco era perfetto e dava tutto se stesso.

Che successe dopo?

G.M.: Me ne tornai a casa in Inghilterra e ripresi a suonare per i fatti miei. La mia band successiva, nel 1980 circa, si chiamava The Spectres con cui registrai un primo singolo autoprodotto, tanto per tastare il terreno, visto che ero in parola con i tipi della Arista per un contratto. Loro risposero prendendo tempo, li mandai a cagare e tornai alla Polydor che mi aveva sempre corteggiato. La Arista, però, aveva comunicato che ci aveva messo sotto contratto e così la Polydor spese i soldi che aveva in mente di dare a noi per firmare un nuovo contratto con Siouxsie & The Banshees. Non sono mai stato un grande manager di me stesso, devo ammettere (ride). Continuammo a suonare per un anno e mezzo circa, incidemmo un altro singolo per la Demon e poi ci sciogliemmo senza troppi rimorsi. Il resto di quella decade non fu un grande periodo per me, ma pure per il rock in generale, c’erano un sacco di gruppi di merda in giro. Così me ne sono stato per i fatti miei, badando alle mie cose, in attesa di momenti migliori. Ora sto certamente meglio che negli anni Ottanta.

Nei Novanta è arrivato il tour della reunion dei Sex Pistols che ti ha portato di nuovo in giro per il mondo. Come è stato ritrovarsi con gli altri tre, dopo tutto quello che era successo?

G.M.: Noi quattro abbiamo qualcosa in comune che nessun altro ha, cioè i Sex Pistols. All’inizio non sapevo che tipo di reazione avremmo avuto, ma è andato tutto bene e così ogni tanto ci ritroviamo e facciamo qualche data assieme, è divertente. Quest’anno siamo di nuovo tra i candidati per entrare nella Rock & Roll Hall Of Fame, quindi significa che qualcosa di buono l’abbiamo pur fatto. E poi, se ci sono i Clash, dobbiamo esserci pure noi (ride).

Nel 1977, la stampa inglese amava mettere in contrapposizione i Clash coi Pistols, tanto per ricreare quell’effetto Beatles contro Rolling Stones che tanto piaceva al pubblico. In realtà, eravate amici...

G.M.: Assolutamente sì. Prima dei Pistols, suonavo spesso con Mick e mi ricordo di quando lui fece un’audizione a Chrissie Hynde per una versione primitiva dei Clash. Quando me ne andai dai Pistols, mi trovai in un pub con Mick e Joe Strummer e mi offrirono il posto come bassista nei Clash. Io risposi che mi spiaceva per Paul, che avrebbero dovuto continuare con lui e basta. Infatti così fecero...

Hai mai avuto occasione di collaborare in maniera seria con Mick Jones?

G.M.: Mi sarebbe piaciuto molto, ma lui è troppo esaltato dalle cose elettroniche, techno, house, hip hop e io non c’entro nulla con quella roba. Nessun problema, apprezzo anche qualche suo disco recente, ma non fa per me, e poi credo che farebbe bene a tornare a suonare del sano rock’n’roll, perché lui è un chitarrista stiloso e eccezionale. Ora io sono felice dei Philistines, suono una specie di rock anni Settanta, ci sono influenze alla Sweet o Slade, ma anche di punk, ovviamente. Non puoi cambiare le tue radici...

Toglimi una curiosità... È vero che fosti chiamato anche a far parte dei Jam?

G.M.: È vero, furono Paul Weller e Bruce Foxton a offrirmi un posto come secondo chitarrista, sempre dopo la mia uscita dai Pistols. Parlammo per un po’ della questione e andò tutto bene fino a quando mi chiesero se ero disposto a mettermi un vestito come il loro per suonare. Gli dissi che non se ne faceva niente e me ne andai (ride)...

Solo per i vestiti?

G.M.: Sì, solo per quello. Magari le cose sarebbero finite in modo diverso, chissà, avrei potuto suonare con Paul Weller, l’ho sempre stimato come songwriter.

Ascoltandoti parlare, si ha proprio l’impressione che tu ti sia divertito in quegli anni...

G.M.: Puoi scommetterci. È stato un momento magico per me e per tutti quelli che avevano diciotto anni a quell’epoca. Mi spiace non essere più un ragazzino - e non c’è molto che io possa fare a riguardo - ma in fondo ho vissuto una vita straordinaria, anche se non sono mai stato una rockstar vera e propria. Il nostro successo era diverso, non sono Phil Collins, tanto per dirne una, mi sento un musicista che deve lavorare per mantenersi e questa è la condizione ideale per tenere i piedi ben piantati per terra e restare a contatto con la gente.

A proposito di contatti... Hai mai più sentito Malcolm McLaren o Vivienne Westwood?

G.M.: No. Ma so che Vivienne ormai è una star mondiale della moda. Lo si capiva che sarebbe diventata famosa, è una donna determinata, una specie di Thatcher (ride). Sono contento per lei, mi piacciono anche i suoi vestiti... È sempre stata brava a capire e interpretare i gusti della gente, sia con i Pistols che in seguito, da sola, con le sue creazioni.

Ascolti molta musica oggi?

G.M.: Poca, preferisco concentrarmi su quella che compongo io. Ascolto qualche band attuale, cose come Kings Of Leon o Jet, ma nulla che mi faccia gridare al miracolo.

Hai mai sentito nulla, in tutti questi anni, che abbia avuto lo stesso impatto dei Pistols, dei Clash o dei Ramones?

G.M.: (lunga pausa) No, non credo proprio, ma capisco che ora sia molto più difficile. Tutto è stato già scritto e suonato. I Jet, per esempio, suonano come i Pretty Things o i Rolling Stones, sono una revival band, nulla di nuovo o epocale. Non riesco ad appassionarmi...

Nemmeno i Nirvana?

G.M.: Erano una buona band, ma sai... io sono un punk, ho sempre avuto problemi con i capelloni (ride)...


domenica 5 settembre 2010

something on your mind

Una delle cose che mi manca di più è l'effetto sorpresa. Posso contare sulle dita di una mano i dischi che mi hanno fatto balzare sulla sedia negli ultimi cinque o dieci anni e quasi tutti erano ristampe o semplicemente album vecchi che non avevo mai sentito prima. Troppo ingeneroso con la musica odierna? Probabile, ma non importa, qui si sta discutendo dell'effetto sorpresa e quello è ancora più raro dei dischi belli. Sì, perché non solo il disco deve essere superbo alle mie orecchie ma deve anche farmi scattare una sorta di dipendenza, obbligarmi a schiacciare il tasto repeat (o meglio, farmi alzare per spostare la puntina indietro), evocare la solita vecchia domanda: come ho fatto a vivere fino ad ora senza? Di solito è un pezzo in particolare a farmi sentire senza difese, negli ultimi tempi mi è successo con "Something in the air" di Thunderclap Newman, poi con "Man next door" di Dennis Brown, "Sweet thing" di Van Morrison, "Nothing but a heartache" delle Flirtations e qualche altro. Un paio di mesi fa, è toccato a "Something on my mind" di Karen Dalton, cantante che conoscevo di nome ma di cui ignoravo la grandezza. È bastato un ascolto solo e per riprovare quella sensazione, l'effetto sorpresa, l'impressione di trovarsi davanti a un miracolo. Al di là della musica, bellissima per i fatti suoi, è la voce della Dalton il vero mistero, "la Bille Holiday del folk" l'hanno definita. Come spesso succede (e come la sua collega jazzista) ha avuto una vita difficile, caratterizzata da una dipendenza da alcol e droghe che l'ha ammazzata a 55 anni, con soli due dischi come testamento. A volte non serve altro: per referenze chiedere a Bob Dylan, Devendra Banhart, Joanna Newsom, Fred Neil e moltissimi altri che da quei due album hanno pescato a piene mani per comporre i propri. Intanto comprate "In my own time" e regalatevi l'ebbrezza del genio.

Yesterday any way you made it was just fine,
So you turned your days into night-time,
Didnt you know, you cant make it without ever even trying?
And something's on your mind, isn't it

Let these times show you that you're breaking up the lines,
Leaving all your dreams too far behind,
Didn't you see, you can't make it without ever even trying?
And something's on your mind.

Maybe another day you'll want to feel another way, you can't stop crying,
You haven't got a thing to say, you feel you want to run away
There's no use trying, anyway.
I've seen the writing on the wall,
Who cannot maintain will always fall,
Well, you know, you can't make it without ever even trying.

And something's on your mind, isn't it
Tell the truth now, isn't it
And something's on your mind, isn't it


venerdì 27 agosto 2010

la torre di Londra

Mentre qui in Italia, nel 1980, si ascoltavano Renato Zero e Anna Oxa nel jukebox del mare, in Inghilterra la BBC produceva un documentario sulla registrazione del pezzo "Towers of London" degli XTC ai Manor Sound, gli studi di Richard Branson. Un'ora intera che ripercorre la stesura e la registrazione di uno dei brani più belli del repertorio di Andy Partridge, Colin Moulding e amici (qua sotto la prima parte, le altre su YouTube). Un po' come se la RAI avesse dedicato un'ora delle proprie trasmissioni alla nascita di "Contessa" dei Decibel al Castello di Carimate. Questione di punti di vista: per gli inglesi è cultura, per noi italiani hobbysmo giovanile. Indovinate chi ha ragione...

sabato 21 agosto 2010

happy birthday joe


L'ho intervistato una volta sola, nel 2001, dopo l'uscita di "Global a go-go" e poco prima che morisse. Oggi avrebbe compiuto 58 anni. Buon compleanno, Joe!

Allora Joe, sei tornato al lavoro in maniera costante. Due album nel giro di poco tempo dopo un lungo silenzio.

È vero. La parte più difficile è stata trovare nuovamente un team vincente per ricominciare a suonare, qualcosa che mi desse gli stimoli giusti e facesse funzionare il tutto perchè non riesco a incidere dischi o a provare canzoni se la gente che suona con me non è sulla stessa lunghezza d’onda. Credo che ogni musicista possa raccontarti di quanto è penoso riuscire a trovare un sostituto se, per esempio, se ne va il batterista. E non si tratta solamente di una questione tecnica perchè poi con quelle stesse persone tu ci esci anche dopo aver suonato e devi passare un sacco di tempo con loro. L’ultima volta che abbiamo suonato in Italia, siamo partiti in autobus dall’Inghilterra e abbiamo guidato fino a Napoli. Immagina di dover stare chiuso lì dentro con della gente che non ti piace, diventeresti pazzo o faresti a botte.

Questo è il motivo per cui non hai più suonato con una band dopo lo scioglimento dei Clash?

Al momento dello scioglimento eravamo diventati dei freaks. Dopo tanti anni in un gruppo di successo è difficile ritornare con i piedi per terra e metterti sullo stesso piano con altri musicisti che non sono famosi come te. Ci ho messo parecchio tempo a rimettermi nel giusto ordine di idee perchè non volevo suonare solamente con una backing band e anche se il disco esce a nome Joe Strummer & The Mescaleros, abbiamo tutti lo stesso peso nell’economia del gruppo. Questo è il modo in cui voglio lavorare e sono felice che quasi tutti i pezzi siano accreditati alla band nel suo insieme. Il mio messaggio è: devi unirti a qualcuno per fare della buona musica; capisco che non sia universale ma per me funziona così. Quando ero nei Clash mi piaceva mettere le magliette con il nostro nome ma quando, nel 1988, ho fatto un album da solista odiavo le t-shirts con scritto Joe Strummer, mi sembravano stupide con quel nome solitario lì sopra.

Per un certo periodo hai anche suonato con i Pogues, un gruppo piuttosto famoso all’epoca.

Beh, devi tenere conto che non sono mai stato un membro effettivo vero e proprio. Quando il loro chitarrista si ammalò prima di un tour mondiale, gli altri decisero di chiedermi se potevo sostituirlo. Quindi, alla fine, ero più un ospite che altro, anche se i Pogues sono dei grandissimi amici prima che dei musicisti. Stavo giusto riascoltando qualche loro disco poco tempo fa e devo dire che suonano ancora straordinariamente bene nonostante gli anni. Hanno resistito all’usura del tempo. Mi ricordo quando uscì “A rainy night in Soho” e la gente pensava che fossero dei poveracci, anche i critici la pensavano così. Sono contento che si siano dovuti ricredere e abbiano dovuto ammettere la loro grandezza.

Quali tuoi dischi pensi che abbiano resistito all’usura degli anni?

“Global a go-go”, il nuovo album, penso che resisterà bene, poi “Sandinista”, “London calling” e “The Clash”.

La rivista inglese Mojo ha paragonato il tuo nuovo disco ad “Astral weeks” di Van Morrison.

Davvero? Forse c’è un certo feeling acustico comune ma non saprei. Comunque, parlando di quel disco, c’è un aneddoto che ti voglio raccontare. Se tu provi ad ascoltare attentamente le parti di basso ti accorgi che sono suonate in maniera stranissima (comincia a mimare con la bocca un suono assurdo che dovrebbe essere il basso - nda). Tutte le volte che lo mettevo su pensavo che quel bassista fosse o un genio oppure un ubriaco e così ho cominciato ad indagare su questa cosa e alla fine ho scoperto cos’era successo. L’etichetta discografica decise di far suonare dei musicisti jazz di New York come backing band pensando che, siccome erano dei mostri di tecnica, ci avrebbero messo meno tempo a registrare e a loro sarebbe costato meno. Immaginati questi due musicisti neri che non sapevano nulla di Van Morrison e che cercavano di suonare del be bop mentre lo accompagnavano. Una parte della magia di quel disco sta in questo incidente di percorso.

Ultimamente hai anche lavorato con Brian Setzer...

Sul suo ultimo disco c’è un pezzo che abbiamo scritto assieme ma risale a quasi due anni fa. Non eravamo molto soddisfatti del lavoro e lo avevamo cestinato. Christine, sua moglie, lo ha recuperato, ha cambiato una parte delle liriche e Brian ha deciso di includerlo nell’album.

C’è un concetto preciso dietro a “Global a go-go”?

La verità è che non c’è nessun concetto preciso. Nel campo artistico si è sempre in obbligo di fornire delle spiegazioni per il proprio lavoro e molto spesso sono delle grosse cazzate. Non c’è un concetto perchè non avevamo nessuna idea di quello che stavamo facendo. Ovviamente quando scrivo dei testi per le canzoni ho in mente un’idea ben precisa ma tendo a procedere un pezzo alla volta e non riesco a focalizzare il lavoro nel suo insieme. Forse potrei dirti che “Global a go-go” si riferisce al fatto che bisogna cercare di farsi entrare in testa che viviamo sullo stesso pianeta, che ne esiste uno soltanto, uguale per tutti. A parte questo non saprei cosa raccontarti, perchè credo sia stupido cercare sempre un significato a tutto ciò che succede. A volte bisogna accettare le cose come vengono senza pensarci troppo su.

Quello che si dice il bello della musica...

Credo di sì, il punto è proprio quello e io sono molto superstizioso quando si parla di musica. Non credo che ai Beatles fregasse qualcosa delle armoniche o di come si leggeva la musica sugli spartiti o della teoria. Parlando di me, non ho mai pensato a come fare per scrivere una canzone, lo facevo e basta. Non ho mai analizzato i miei pezzi cercando di capire come avevo fatto a comporli perchè non mi interessa. Nascono da soli e sono felice così. È il tuo mestiere quello di dire delle cose estremamente intelligenti sul mio lavoro, una tua preoccupazione (ride).

Hai lavorato di nuovo in campo cinematografico recentemente?

Non voglio più avere a che fare con un film in vita mia. Ho cercato di capire se sarei stato una stella del cinema perchè è il sogno che tutti hanno nella vita ma ho realizzato in fretta che non faceva per me, è troppo difficile. Però tre anni fa, un francese pazzo ha insistito così tanto che ho accettato di incontrarlo. In meno di dieci minuti mi aveva convinto a recitare in un delirio che si chiama “Docteur chance”. Quel ragazzo è una persona interessantissima e molto colta, abbiamo parlato per ore di un sacco di cose che io non conoscevo e alla fine sono stato contento di averlo fatto. È stato come andare all’università perchè lui parlava come una mitraglia in un misto di francese, inglese e spagnolo e io lo stavo ad ascoltare. Devo dire che mi piacerebbe lavorare di nuovo con lui e sono curioso di vedere come è venuto il film visto che è appena uscito in DVD. Ci sono anche i sottotitoli in inglese ma penso che nessuno capirà niente lo stesso (ride). È stato presentato ad un festival di cinema a Londra e dopo la proiezione io e lui siamo saliti sul palco per rispondere alle domande del pubblico. Nessuno ha osato chiedere niente e ti assicuro che era una situazione molto imbarazzante. Se non piace alla gente che va a quei festival mi chiedo cosa ne penseranno gli altri.

Tornando al disco nuovo, devo dire che fa capolino di nuovo la tua passione per una certa world music, in questo caso qualche aroma cubano.

Non proprio ma un fondo di verita c’è. In questo periodo sta circolando parecchia musica cubana, cose tipo Buena Vista Social Club, e io mi sono innamorato del loro modo di suonare e, soprattutto, registrare le congas. Anche se hai le migliori percussioni del mondo è quasi impossibile riuscire a ottenere quel tipo di suono. Devi cercare di suonare lentamente ma con forza mentre viene più naturale un suono molto soft. Questa è la prima volta che riesco ad avere delle percussioni che suonano circa come quelle cubane perchè è difficile anche capire come posizionare i microfoni durante la registrazione. Immagino che sia un loro segreto.

Cosa mi dici del ritorno di Tymon Dogg?

Sono felice che sia di nuovo con me, dopo “Sandinista”. Lui mi ha insegnato a suonare la chitarra nel 1971, era un musicista di strada, un busker, e io facevo la colletta per lui. Oltre a suonare nella metropolitana di Londra, abbiamo girato per l’Europa, in Francia, Olanda, Belgio. Dopo tanti anni ci siamo incontrati per caso e così gli ho chiesto di suonare sul disco.

Cosa pensi dell’eredità che hanno lasciato i Clash?

Ovviamente sono molto orgoglioso. Mi sono sempre chiesto come avremmo reagito se avessimo saputo allora di essere così importanti per molta gente e che in futuro saremmo stati considerati una delle più importanti rock’n’roll bands di sempre. All’epoca nessuno di noi aveva questa sensazione.

Come è cambiato il music business in questi anni?

Certamente è peggiorato se penso anche alla mia grande difficoltà nel trovare un’etichetta disposta a pubblicare i miei dischi. Una volta se il tuo album di debutto non vendeva, avevi comunque una seconda o una terza possibilità mentre oggi se non fai il botto al primo colpo sei scaricato in mezzo alla strada. Non penso che i discografici di oggi riconoscerebbero un nuovo Frank Sinatra nemmeno se lo avessero davanti e questa è una situazione che ti rende nervoso come musicista. Io devo dire grazie alla Hellcat perchè ha dimostrato di credere in me, ha dimostrato di essere una punk rock label nel vero senso della parola. Tornando alla domanda di prima, quella sull’eredità dei Clash, ti posso dire che all’industria musicale non gliene frega un cazzo della tua storia o di chi sei: se non vendi, non sei nessuno.

E cosa pensa Joe Strummer del punk nel 2001?

Io devo tutto al punk, tutta la mia vita. Nel 1977 mi ha salvato dal diventare un chitarrista di qualche cover band che suona nei bar e che deve schivare le bottiglie di birra mentre nel 2001 il punk mi ha salvato nuovamente permettendomi di incidere dischi per un’etichetta di successo, che mi stima come musicista.

giovedì 12 agosto 2010

io e joey

"Non abbiamo nemmeno una fotografia di noi due assieme", mi fa Joey prima di salire sul tour bus e ripartire per Friburgo a tarda notte. "Dai, la prossima volta la facciamo", gli dico io, ma in effetti ci sarebbe stata bene qui sopra al posto di questa orrenda e sfocata che gli ho fatto mentre stava suonando.

Alle 3 del pomeriggio mi arriva un sms: "Sono a Milano nello stesso hotel dell'altra volta. Mi raggiungi? Sono annoiato". Lo raggiungo poco dopo, eravamo già più o meno d'accordo che ci saremmo visti senza cene o casini di mezzo, giusto per metterci in pari con mesi e mesi di cose da raccontarsi. Andiamo al Magnolia per il soundcheck, poi torniamo al suo albergo e cominciamo a parlare a ruota libera, di cazzi nostri ma pure di altri, di musica, cinema, libri. Sotto, la fredda cronaca (quella pubblicabile almeno), per come me la ricordo e divisa per argomenti (punk):

RAMONES
J: "Sono il mio gruppo preferito di sempre, ho suonato al museo dei Ramones che c'è a Berlino e mi sono emozionato".
S: "Sono uno dei miei gruppi preferiti di sempre, ma una volta se vedevi un tizio con una maglietta dei Ramones correvi a parlargli, ora ti giri dall'altra parte e lo eviti".
J: "Sono stato ospite alla trasmissione radio di Marky Ramone ed è stato tristissimo. Lui non c'era, al suo posto un tizio che leggeva le domande della mia intervista, che poi lo stesso Marky avrebbe doppiato in seguito".
S: "Quindi non sai se davvero ha la parrucca".
J: "Mi stupirei non l'avesse, ha lo stesso taglio e colore di capelli di 'End of the century'"!

BAD RELIGION
J: " Sono una delle band più assurde con cui stare in tour. Non si parlano da anni, proprio come Joey e Johnny Ramone all'epoca".
S: "Hanno la miglior coppia di chitarristi hardcore in circolazione però, Greg Hetson e Brian Baker".
J: "È vero, ma è stranissimo vederli in tour. Graffin non ha praticamente contatti con nessuno, è totalmente uncool, Hetson passa tutto il tempo a cercare ragazze, Baker è intrattabile ma a me piace moltissimo, io e lui andiamo d'accordo, Jay Bentley e Brooks Wackerman sono i due più gentili e simpatici".
S: "Anni fa intervistai proprio Graffin e Baker e mi fecero un bell'effetto invece".
J: "Forse gli eri simpatico tu! Sai che Baker ha suonato per un anno circa coi Gimme Gimmes? Non è mai riuscito a imparare un pezzo, giuro, aveva sempre il leggìo con gli spartiti, Mike non lo sopportava. Cazzo, come fai a non imparare i pezzi dei Gimme Gimmies, sei Brian Baker! Quando se ne andò, arrivò Warren dei Vandals, ma pure lui era troppo impegnato per suonare con noi".
S: "Quindi i Bad Religion si odiano".
J: "Non so, ma sicuramente non si parlano e non si frequentano, assieme fanno solo dischi e concerti".

JELLO BIAFRA
J: "Per un certo periodo, Biafra girava spesso con i Gimme Gimmes perché è amico di Fat Mike. Era spesso impegnato nei suoi tour di spoken word e gli rifilavano sempre dei SUV per portarlo in giro durante le date e lui andava in paranoia: ' Come cazzo faccio a parlare dell'Iraq e dello spreco di petrolio quando giro con un SUV che consuma decine di litri di benzina?'. Il suo autista personale, quando è in giro, è un nostro amico che si chiama Johnny Puke e fa la migliore interpretazione che abbia mai sentito di Biafra. È identico, cazzo vorrei fosse qui per fartela sentire... Hai presente come parla, no? Sembra una vecchia signora snob a volte e Johnny lo fa uguale".
S: "L'ho conosciuto al Leonkavallo ed era il periodo di massimo scazzo con gli ex Dead Kennedys, quindi non si riusciva a parlare d'altro che della causa legale e di quanto fossero stronzi i suoi ex amici".
J: " Sbaglio o hanno suonato di nuovo assieme?"
S: "Non credo, però Biafra fa pezzi dei DK con il suo nuovo gruppo, i Guantanamo School Of Medicine".

RKL
J: "Tutti i membri dei Lagwagon, a parte me, hanno suonato per un certo periodo nei Rich Kids On LSD".
S: "Io li adoravo! Mi ricordo un loro concerto a inizio anni Novanta a Ivrea, in una scuola materna, credo. Devastante. E poi a un certo punto Jason, il cantante, si è tirato giù i pantaloni e le mutande per far vedere il tatuaggio che aveva sul culo, quello con scritto 'Eat shit'. Genio...".
J: "Quando avevo 15 anni cantavo in un gruppo del giro di Oxnard, gli Urban Assault (non quelli più famosi ovviamente) e ho suonato assieme a tutti quanti: Agression, RKL, Dr. Know, Scared Straight... Siamo anche su una compilation della Mystic con un pezzo".

MIKE WATT
J: "L'hai visto il documentario sui Minutemen?"
S: "'We jam econo'? Sì, è bellissimo te lo consiglio".
J: "Lo devo guardare, adoro Mike Watt".
S: "Una volta lo vidi a Torino con i fIREHOSE e passò la serata a parlare di se stesso in terza persona, per cui non capii nemmeno una parola di quello mi disse. Sul basso aveva scritto 'Mike Watt supports Madonna' e aveva attaccato una foto di sua moglie Kira. Però fecero una cover di 'Sophisticated bitch' dei Public Enemy!".

mercoledì 11 agosto 2010

kossiga con la kappa


Quando sarà la sua ora, pare tra non molto, prima di partire coi coccodrilli, le rivalutazioni, le frasi di circostanza, i discorsi tipo "sì, ma in fondo taldeitali è peggio", il solito buonismo d'accatto e via di questo passo, ricordatevi di queste perle uscite dalla sua bocca. L'ultimo tassello di una carriera passata a mentire, depistare e rovinare questo orrendo paese in cui ci tocca vivere: "In primo luogo lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito... Lasciar fare gli universitari, ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì".