martedì 16 luglio 2013

Siamo tutti Devo

Tra notizie buone - l'uscita di un bel CD live, della loro biografia Recombo DNA e la ristampa delle compilation capolavoro Hardcore Devo vol. 1 & 2, fuori catalogo da anni - e cattive, come la scomparsa del metronomo umano Alan Myers, storico batterista della band, è un buon periodo per parlare dei Devo, uno dei miei gruppi preferiti di sempre. In attesa di incrociarli nuovamente sul mio cammino, ripubblico qui un'intervista che feci tempo fa, nel 2007 per l'esattezza, tra Bergamo e Azzano Decimo, pubblicata in origine sul sito di Rolling Stone e ora persa nella rete. A corredo delle due giornate trascorse con loro, ci fu anche un incredibile servizio fotografico, a cura di Moira Ricci, con tutti e sei i protagonisti, io e la band, vestiti con le classiche tute gialle, di cui potete vedere uno scatto qui sopra. La mia tuta, ovviamente graziata dalle loro firme, è conservata con cura in un cassetto per l'eternità... 
 

Akron, Ohio. Capitale mondiale della gomma, come viene definita dai suoi abitanti con un pizzico di orgoglio masochista (“Già all’inizio degli anni Settanta era una città fantasma, prossima alla morte”, mi confessa candidamente Jerry Casale). Un’ambientazione perfetta per una delle band più geniali e innovative della storia del rock che, da una condizione geografica così depressa e svantaggiosa, è partita alla conquista degli Stati Uniti e del resto del mondo. Dopo aver pubblicato un paio di dischi capolavoro come Q: Are we not men? A: We are Devo e Duty now for the future e aver raggiunto il successo al botteghino con Freedom of choice nei primi anni Ottanta, i Devo hanno vissuto un declino artistico e commerciale che li ha portati a una sorta di pensionamento dorato, fatto di qualche altro album e di un primo scioglimento. Da parecchi anni a questa parte la band (i due fratelli Mothersbaugh, Mark e Bob I, e i due Casale, Jerry e Bob II. Alla batteria siede Josh Freese, il session man più famoso dell’alternative rock americano) è attiva solo in sede live, attività piuttosto remunerativa in questi tempi di costanti reunion (ovviamente non era stato ancora pubblicato l'album di inediti Something for everybody del 2010, nda). Per la prima volta dopo quasi due decenni i Devo sono in Europa per un tour che tocca l’Italia per due date. 
 Per Bergamo abbiamo organizzato tutto, intervista e photo session con la famosa tuta e il cappello a vaso di fiori, ma come spesso succede le cose non vanno per il verso giusto. Il manager è incazzato nero, nel pomeriggio è saltata la corrente un paio di volte e lui minaccia di annullare il concerto, figurarsi la nostra intervista. Nonostante il nervosismo che si percepisce nel backstage del Lazzaretto, splendida location bergamasca, i Devo sembrano godersi quella che pare una vacanza. Bob Casale viaggia con moglie e figli, due ragazzini magrissimi e super nerd con magliette dei Megadeth, Mark pare uno scienziato pazzo dei film di fantascienza, gli altri si fermano a parlare con chiunque capiti a tiro. Jerry, tutto fasciato da un completo viola che gli dona un’aria elegantissima, si scusa per gli inconvenienti e ne approfitta per sciorinarmi la sua lista di ristoranti italiani preferiti, manco lavorasse per la Guida Michelin. Tra un consiglio culinario e l’altro - lui (americano) a me (italiano), roba da non credere… - il discorso si sposta proprio su Akron, da cui tutti loro sono emigrati anni fa: “Negli anni Settanta, tutti vestivano con jeans a zampa d’elefante, magliette psichedeliche, portavano i capelli lunghi, fumavano erba e guidavano i furgoncini Ford. Beh, poi c’eravamo noi che apparivamo ai concerti con le tute gialle e lì scoppiavano i casini, forse gli ricordavamo le fabbriche che tanto odiavano”. Già le tute… gli mostro la mia, quella che indosserò per le foto, e lui si mette a ridere, ma evidentemente è abituato al culto selvaggio che accompagna la sua band, tanto più che con loro viaggia Michael Pilmer, presidente del Club Devo, uno che passa gran parte della sua giornata a coordinare iniziative legate al loro nome, tra cover band, party a tema, scambio di materiale raro e il sito web. Un pazzo, insomma, con cui mi trovo immediatamente a mio agio. 
La tutona gialla dei Devo, uno dei travestimenti di scena più scomodi e caldi che si possa immaginare, ma anche uno dei più geniali, è passato alla storia e diventato icona della musica rock. “Quando abbiamo trovato quelle tute in una fabbrica abbiamo capito che la loro valenza visiva era proprio ciò che stavamo cercando, ci davano un aspetto immediatamente riconoscibile e, al tempo stesso, ci facevano apparire come degli alieni piovuti dal futuro. Avevamo un’educazione universitaria, eravamo studenti di cinema o d’arte e quindi con un certo background culturale, appassionati di dadaismo e pop art, ma adoravamo mischiare l’alto con il basso, incorporare elementi che appartenevano alla cultura di serie B americana: la fantascienza anni Cinquanta, i film da drive-in, l’horror, la letteratura pulp e, di rimando, il rock’n’roll più trasgressivo. Da queste influenze abbiamo tratto il sound dei Devo, lavorandoci sopra per anni in totale isolamento e solitudine, senza che nessuno fosse minimamente interessato a noi, se non per picchiarci (ride)”. La presenza minacciosa del manager impedisce di approfondire troppo, ma con grande pazienza degli organizzatori e un po’ di buon senso riusciamo almeno a ottenere cinque minuti per il servizio fotografico, salvando almeno in parte la serata. I Devo fanno un concerto strepitoso ed è già ora di partire alla volta di Azzano Decimo, a qualche chilometro da Pordenone, per la seconda tappa. 
Alle quattro di pomeriggio del giorno dopo ritrovo la band e riprendo da dove avevo interrotto la sera prima. Jerry mi invita a entrare nella stanza dove sta sistemando giudiziosamente le tute e i cappelli per il concerto. Gli dico che pare quasi lo spogliatoio di una squadra di calcio e mi guarda divertito. Forse dovevo dire football o baseball… Ad ogni modo siamo qui per parlare della sua band e mi tolgo la curiosità di domandargli la storia che sta dietro al loro primo leggendario album, Q: Are we not men?…, pietra miliare del punk e del rock degli anni Settanta, quello con la cover de-evoluta di Satisfaction degli Stones. “Bob Mothersbaugh era andato a un concerto di Iggy Pop a Cleveland, il tour di The idiot con David Bowie alle tastiere. Alla fine del concerto avvicinò proprio Bowie per dargli un demo dei Devo, ma lui lo buttò via senza nemmeno ascoltarlo. Per fortuna Iggy recuperò il nastro e ne rimase affascinato, costringendo David a sentirlo. Nove mesi più tardi, mentre eravamo in California per un breve tour, lo stesso Iggy si presentò a un nostro show dichiarando che i Devo erano la sua band preferita del momento e che Bowie voleva produrci un disco. Poi, una serie di impegni ritardò la nostra collaborazione e così finimmo, su suo suggerimento, per contattare Brian Eno, il quale pagò di tasca sua le registrazioni del nostro debutto, prima ancora che avessimo un contratto discografico. Non volevamo aspettare altro tempo, avevamo il materiale pronto e perfetto per essere inciso, tutte le altre band contemporanee a noi avevano giù un disco fuori. Per fortuna andò così e il risultato, molto immodestamente, credo abbia passato indenne il test del tempo”. Per anni si è vociferato di grosse ingerenze di Eno proprio in fase di produzione, anche e soprattutto se si comparano i primi demo del gruppo, lenti e robotici, e il materiale pubblicato sull’album. Casale non si scompone per nulla: “Vuoi sapere la verità? Il nostro suono è maturato quando abbiamo scoperto il punk, lì abbiamo capito che serviva inglobare anche quell’energia per rendere il nostro materiale unico. Brian Eno non c’entra proprio nulla ”. A dispetto di un’immagine giocosa e di una certa leggerezza di fondo, i Devo sono una band che non è sbagliato definire politicizzata o quantomeno molto attenta ai cambiamenti sociali. La loro celebre teoria della de-evoluzione, secondo cui l’uomo sarebbe destinato a un’involuzione morale e culturale, fino a tornare alla condizone di scimmia, pare essersi sinistramente avverata, almeno stando a vedere quanto succede nel mondo e, specialmente, nel loro paese di origine. “In questi ultimi anni, gli Stati Uniti sono diventati una nazione orribile, guidata da un imbecille pericoloso che ha sempre la risposta sbagliata a ogni domanda. Prendi un argomento a caso e te lo dimostro: politica estera? Un disastro. Politica ambientale? Uno sfacelo, e via di questo passo. George W. Bush è un cristiano fondamentalista, per me è identico a Osama Bin Laden, non ci sono differenze, credimi. La de-evoluzione era partita come un gioco, una battuta, ora si sta dimostrando reale e non so se ridere o piangere…”. 
Mentre Jerry continua giudiziosamente a sistemare le tute gialle, tagliandole sul retro in modo che sia semplice strapparle durante Uncontrollable urge, gli chiedo di raccontarmi ancora qualcosa, magari un episodio curioso legato proprio al loro travestimento più conosciuto. Scoppia a ridere e mi guarda pensoso: “Nel 1978 ci invitarono a Londra per tre concerti, eravamo il nome nuovo della scena punk, così ci ritrovammo in Inghilterra. Il primo giorno, alla Roundhouse, erano riuniti tutti i giornalisti delle maggiori testate musicali britanniche e il New Musical Express ci propose un servizio fotografico con i nostri costumi. Ci caricarono su un furgone e ci portarono nell’East End, a quell’epoca una zona disastrata e pericolosa di Londra. Appena scesi dall’auto cominciammo a camminare in giro con movenze robotiche mentre il fotografo scattava. Non ci eravamo accorti di essere davanti a una scuola media e che i ragazzini in cortile ci stavano osservando. A un certo punto, uno di loro partì a tutta velocità verso di noi e tirò un calcio fortissimo sugli stinchi di mio fratello Bob, il quale cominciò a urlare parolacce rivolte al ragazzino e a inseguirlo zoppicando. Lui, per tutta risposta, si voltò verso i suoi amici e gli disse: ‘Avete visto? Avevo ragione io! Non sono dei robot!’”. Al ricordo, Jerry ricomincia a sogghignare ed esce dalla stanza. “Ci vediamo dopo, vado a chiedere a Bob se si ricorda…”.
 
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mercoledì 10 luglio 2013

Just Do It

Chissà se qualcun altro, oltre a me, si starà immaginando i pubblicitari di Nike - bicchieri in mano e cravatte slacciate - mentre celebrano, sulle note di "Gary Gilmore's Eyes" degli Adverts, i 25 anni del loro slogan più celebre, quello che ha consegnato all'eternità il marchio sportivo americano.
Per chi non lo sapesse, infatti, il motto "Just do it" trae la sua ispirazione principale dalle ultime parole pronunciate da uno dei più celebri omicidi americani degli anni Settanta, Gary Gilmore. Proprio lui, poco prima dell'esecuzione, si rivolge ai poliziotti con la frase "let's do it", facciamolo, e proprio su quelle parole riflette Dan Wieden, pubblicitario che inventa lo slogan. Un piccolo aggiustamento ("just" al posto di "let's") e il gioco è fatto, come potete leggere nell'articolo poco sotto.
A distanza di anni, tra l'altro, questo strano punto di contatto tra una multinazionale controversa come Nike e il bad guy Gary Gilmore - omaggiato anche dai terroristi sonori Throbbing Gristle, i quali avevano addirittura fondato un'appreciation society - appare perversamente diabolico.

http://www.ilpost.it/2013/07/10/storia-nike-just-do-it/


http://soundartarchive.net/WORKS-details.php?recordID=2266

lunedì 29 ottobre 2012

A 900 miglia da casa

Il primo a dare la notizia della sua scomparsa pare sia stato Gilles Peterson, ma a questo punto ha davvero poca importanza, se non per la tristezza insita nell'annuncio. Terry Callier, 67 anni, è stato trovato morto a casa sua. Non ci serve sapere altro.

Ammetto con grande candore di aver passato gran parte della mia vita senza sapere nulla di lui e della sua musica e di essermi accorto della sua voce meravigliosa solamente quando ha accettato di collaborare con i Massive Attack per un brano, "Live With Me": un pezzo incredibile, l'ultimo davvero degno di nota composto dal gruppo di Bristol. L'unico lato positivo dell'averlo scoperto tardi è che, una volta tanto, mi sono trovato con un mondo intero da esplorare, dischi da recuperare, canzoni da ascoltare per la prima volta. La scelta immediata è caduta sull'esordio, "The New Folk Sound Of Terry Callier" - se si comincia da zero, meglio farlo dall'inizio, no? - e tutto il primo ascolto l'ho passato a chiedermi come fosse stato possibile non essermi mai accorto di un disco del genere. Folk quasi classico, come può esserlo nel 1964, ma cantato da uno con una voce soul che poteva rivaleggiare con quella di Curtis Mayfield, che peraltro era suo amico d'infanzia, e che era innamorato di John Coltrane. Scordatevi Bob Dylan o Joan Baez, siamo su un pianeta differente e parallelo. Uno in cui, purtroppo, girano pochi soldi e la fama tarda ad arrivare, uno su cui spesso abitano molti dei musicisti che amo. Ci volevano i Massive Attack, quindi, per regalargli scampoli di successo e, speriamo, una maggiore serenità. E se, quando ascoltate la voce di Antony, vi sembra di cogliere qualcosa di già sentito prima, provate a pensare a Callier...

Curiosamente, per non avendolo mai conosciuto o incrociato di persona, ho un aneddoto bizzarro che lo riguarda. Nel 2006, quando lavoravo a Rocksound, capitò in ufficio Greg Dulli degli Afghan Whigs per un'intervista. Non il solito domanda e risposta, ma una specie di quiz musicale che noi chiamavamo "blind test": per farla breve, si sceglieva una decina di pezzi che avessero in qualche modo attinenza col personaggio e glieli si faceva ascoltare/indovinare per poi parlarne in maniera più approfondita. Vista la grande passione di Dulli per la musica soul, decisi di mettere come brano finale proprio "Live With Me", di cui avevamo appena ricevuto il singolo promozionale. Durante i precedenti nove test, il buon Greg si limitò a sorridere compiaciuto e a indovinarli con grande semplicità, discorrendo del più e del meno, ma mancava l'ultima canzone che, ovviamente, non poteva ancora conoscere. Gli dissi di ascoltare tutto con calma, senza nessuna fretta: dopo un minuto buono si alzò dalla sedia eccitato, si accese una sigaretta (non si poteva, ma vaglielo a spiegare) e iniziò a ridere come un pazzo bofonchiando da solo, ma senza riuscire a capire chi fosse il cantante. 
Alla fine, al nome Terry Callier, si illuminò come un bambino infilando una serie infinita di "fuck", si prese il cd del blind test e me lo fece firmare come ricordo della giornata, avendo cura di infilarselo nella tasca del suo cappotto. Tutto qui, direte voi? No, c'è un seguito: qualche mese più tardi, proprio Greg Dulli fece recapitare in redazione il suo nuovo EP a firma Twilight Singers, tutto composto da cover, tra cui proprio "Live With Me", in una versione spettrale e più chitarristica. Bellissima, in ogni caso.
Chissà, magari non c'entra nulla, ma mi piace pensare che il mio cd che si era fregato quel giorno abbia guidato la scelta di Greg di includere e incidere quel pezzo. 

Ciao Terry, speriamo che dopo 900 miglia, per citare uno dei tuoi capolavori, tu sia finalmente arrivato a casa.

domenica 21 ottobre 2012

Volare!

Ieri sera, come mi capita raramente ormai, ho fatto un salto al Leonkavallo per vedermi il concerto di uno dei miei gruppi italiani preferiti di sempre, i Confusional Quartet. Dopo un'assenza di trent'anni circa e dopo aver dato alle stampe un album (oltre a un 10" e poco altro) che rientra puntualmente nei miei ascolti, i quattro bolognesi sono tornati a suonare assieme in formazione originale e hanno da poco pubblicato ben due dischi a breve distanza. Insomma, era giunto il momento di giocarmi il mio secondo bonus Leonkavallo dell'anno - il primo, per inciso, l'ho usato per i Black Fag. Prima di raccontarvi del concerto, credo che una breve spiegazione del mio scarso feeling con la location sia necessaria: detto della grande valenza sociale, politica e di aggregazione del centro sociale più famoso d'Italia e constatato come ormai, questa valenza, nel 2012, sia nulla o quasi, mi deprime e intristisce prendere atto di come si sia trasformato definitivamente in un grandissimo cliché del modello alternativo (qualunque cosa significhi questa parola) di cui era fieramente un bastione. E senza paraocchi o particolare astio, per carità, basta un breve tour al suo interno per rendersene conto.
Il Leonkavallo è una "non zona", congelata nel tempo e destinata a ripetere se stessa in maniera avvilente, ricordando la trama del film "Il giorno della marmotta": scegliete una qualunque serata, con concerto o senza, e il panorama che vi si presenterà sarà sempre ed inequivocabilmente lo stesso. Sala grande con nordafricani impegnati a fumare e ascoltare musica rap orrenda, casetta in mezzo al cortile con i soliti cinque sfigati coi bonghi (meglio se con i dreadlock in testa, che in fondo il reggae, Bob Marley, hai capito, no?), baretto in fondo con solitario suonatore di blues sul palchetto e odore di hashish, spazio concerti esterno vuoto e con musica a palla, intercambiabile con lo spazio concerti interno a seconda della stagione. Il primo gruppo di supporto (perché ce ne devono essere almeno due, se no che gusto c'è?) attacca poco prima di mezzanotte e suona quaranta minuti, il secondo idem, in modo che la band principale, quella per cui TUTTI sono venuti, inizi verso l'una e mezza, quando TUTTI si sono già rotti le palle e vorrebbero essere ovunque tranne che al Leonkavallo.
Ovviamente, essendo io duro di comprendonio e un inguaribile ottimista, continuo ad ostinarmi ad arrivare alle undici, nella segreta speranza che qualcosa sia cambiato e invece è sempre il giorno della marmotta, al punto che sospetto persino che il pubblico misto, quello a cui non importa di nulla in particolare se non del fumo e della birra a un euro, sia sempre lo stesso. C'è il sosia di Pirlo con lo skate sottobraccio, la compagnia dei Boateng - stesso taglio da idioti, senso dello stile inesistente, tatuaggi orridi -, il tizio col banchetto che vende pipe e bong, il nero alto due metri che passa il tempo a vagare nella sala concerti senza sosta e poi, il classico dei classici, quello che inevitabilmente si piazza di fianco a me: l'ubriaco molesto. Non importano razza, colore o religione (ieri sera era nordafricano, per esempio), servono solo cinque birre medie e il gioco è fatto. Comincia col chiederti sigarette, monete, accendino - ieri, in un momento situazionista di altissimo livello, mi ha chiesto l'età, lasciandomi senza parole! - e poi prosegue biascicando parole senza senso, iniziando dieci discorsi in cui vorrebbe coinvolgerti e, infine, cercando di abbracciarti come fossi suo fratello. Un gradino oltre la soglia di sopportazione, più o meno. 
Ora, se siete arrivati fino a questo punto con la lettura, vuol dire che siete curiosi e vi interessa sapere del concerto: un'ora o poco più di Confusional Quartet, con pochissime concessioni al passato, anzi direi una sola, la leggendaria "Volare", cover destrutturata del classico di Modugno, suonata a inizio set e come unico bis. E se da un lato un po' di delusione me la sono portata a casa - che bello sarebbe stato ascoltare "Orinoco Blues", "Pensione elastica" o "Bologna rock"? - dall'altra apprezzo un gruppo che si riforma trent'anni dopo lo scioglimento e non concede quasi nulla alla nostalgia, risultando attuale, contemporaneo e con un repertorio di tutto rispetto. Riconosco qualche brano tratto da "Italia calibro X", uscito qualche mese fa, e mi ascolto in anteprima i pezzi che stanno sul nuovissimo album, ancora una volta intitolato "Confusional Quartet" e basta. L'unicità del suono è ancora intatta, nel 2012 nessuno suona come loro e le caratteristiche che ho sempre amato mi provocano brividi di piacere e mi fanno quasi venir voglia di abbracciare l'ubriaco: tastierine dementi, base ritmica devastante, chitarra che rifugge accordi e riff facili per infilare strani arpeggi, un'intensità che ci si aspetterebbe da dei ventenni in piena tempesta ormonale e non da veterani del rock nazionale. Sono di parte, lo so, ma non importa: avevamo ragione nel 1980, figurarsi oggi...
Torno a casa con vinile e cd, spero di ascoltarmelo con calma nei prossimi giorni e, a parte la copertina, che trovo davvero brutta - il paragone con quella del loro storico esordio è impietoso -, sono certo che sarà un'epifania. Bentornati.

giovedì 27 settembre 2012

Never Mind The Bollocks


Due giorni fa, il 25 settembre, è uscito il cofanetto celebrativo di "Never Mind The Bollocks, Here's The Sex Pistols", che celebra il trentacinquennale di uno dei dischi più rivoluzionari della storia del rock e, senza dubbi, uno dei più importanti della mia vita. A differenza di tanti altri, paradossalmente, non mi ricordo il momento in cui lo comprai - al contrario dei singoli "Pretty Vacant" e "God Save The Queen", di cui ho memoria -, ma da quell'ottobre del 1977 non credo sia passato anno senza che l'abbia ascoltato almeno una volta. Ho ancora la copia del disco originale, tutta rovinata da un sacco di fotografie che io e mio fratello avevamo attaccato sulla copertina, fronte e retro, e sulla busta interna (c'è pure una tenerissima scritta "fuck off" fatta a penna...), al punto che la colla era filtrata attraverso la carta rovinando un po' il vinile.
L'ho ricomprato in altre versioni, in CD, nell'edizione del cofanetto uscito qualche anno fa, in tutte le salse insomma. Lo trovo perfetto oggi come allora, senza che abbia perso quell'aria minacciosa che tanto me lo fece amare, e non vedo l'ora che mi arrivi questo imponente boxset per risentirlo. È una di quelle confezioni per feticisti all'ultimo stadio, con il disco originale, i demo inediti (chissà dov'erano), due concerti live, una versione mai pubblicata di "Belsen Was A Gas" (uno stupido pezzo di Sid Vicious), una replica del singolo di "God Save The Queen" e del testo manoscritto da Rotten, un libro con foto inedite, un DVD con parecchi filmati interessanti. Immagino che possiate tranquillamente continuare a vivere senza, ma cercate di capirmi mentre guardo la versione expanded della mia giovinezza ribelle e romantica.
Paradossale, tra l'altro, che 35 dopo io abbia incontrato per la prima volta nella mia vita John Lydon (a luglio a Milano, sotto potete vedere la mia intervista) e Glen Matlock, il primo bassista che, ai tempi dell'album, già se n'era andato dal gruppo (ad agosto, a Londra, ci sono persino dei progetti per un paio di lavori futuri). Difficile che non abbiate mai ascoltato questo disco, ma nel caso ecco una buona occasione per farlo, seppur con colpevole ritardo. Beati voi, comunque...

mercoledì 19 settembre 2012

Evidently Chickentown


Ormai, l'unica maniera per fare un post sul mio blog è quella di aspettare una specie d'illuminazione o di cogliere qualche segno particolare nel mio quotidiano. Per esempio, una mail di mio fratello che mi parla, tra le altre cose, di John Cooper Clarke, di cui è uscito qualche tempo fa un bel documentario della BBC e che, negli ultimi mesi, era ritornato prepotentemente in cima ai miei pensieri. Qualche articolo, un'intervista, l'acquisto di un singolo che mi mancava a Londra... Ecco, mi sono detto, vale la pena spendere del tempo a scrivere del poeta del punk, The Bard of Salford. E, per voi, di leggere queste righe.

Come quasi tutte le cose che mi hanno impressionato nella vita, il primo incontro con JCC risale a quando ero ragazzino: un amico mi aveva prestato una copia di "Short Circuit - Live at the Electric Circus", un 10" che celebrava le due serate finali (1 e 2 ottobre 1977) di un leggendario locale di Manchester, offrendo al contempo una panoramica di una scena cittadina che stava per diventare una delle più incredibili della storia della musica rock: all'interno di quel disco, ci stavano Joy Division (a dire il vero suonarono a nome Warsaw, ma lo cambiarono poco dopo), Fall, Buzzcocks, Drones, Steel Pulse (una delle migliori reggae band d'Inghilterra) e, infine, John Cooper Clarke, con due brevissimi pezzi. La cosa incredibile, oltre al fatto di sentire un poeta che declamava in maniera anfetaminica e punk le sue rime, era ascoltare la reazione del pubblico: urla, schiamazzi e, alla fine, applausi a scena aperta. Non una chitarra all'orizzonte, solo la sua voce e una presenza scenica incredibile: bastavano il suo fisico scheletrico, la pettinatura da Dylan degli anni Sessanta, gli occhiali neri e quella voce inconfondibile per vincere ogni resistenza.

All'epoca il mio inglese non era un granché e mi ricordo che passai ore a cercare di intercettare qualche parola che giustificasse l'eccitazione del pubblico, le risate (anche quelle di Clarke, che a un certo punto s'interrompeva e non riusciva ad andare avanti), il tripudio generale. Potete provarci anche voi, ascoltando quella versione di "I Married A Monster From Outer Space", prima di arrendervi e farvi aiutare da Google. Io, ancora oggi, non riesco a trattenermi quando JCC arriva a questo punto: "When we went walking, tentacle in hand / you could sense that the earthlings would not understand / they'd go nudge nudge when we got off the bus, saying it's extra-terrestrial - not like us / and it's bad enough with another race, but fuck me, a monster from outer space". 
L'altro fulminante capolavoro si chiama "I Never See a Nipple in the Daily Express" e completa la doppietta, scatenando una curiosità per il poeta che non sarebbe mai venuta meno. 

Da quel momento, John Cooper Clarke è diventato uno dei miei miti personali, quasi mai condiviso con altre persone a dire la verità, se non in anni più recenti, quando è diventato una figura leggendaria anche al di fuori di Manchester e della scena indipendente britannica. Mi ricordo di una sua intervista su Mojo, opera di Alex Turner degli Arctic Monkeys, uno dai gusti buoni evidentemente, e poi, qualche mese fa, un'altra sul Guardian, in cui JCC candidamente raccontava del suo lunghissimo periodo buio, in cui la tossicodipendenza da eroina (e, tra le altre cose, la sua relazione pericolosa con Nico, ex Velvet Underground) lo ridusse in fin di vita. Insomma, uno di quelli di cui ti aspettavi di leggere un necrologio da un momento all'altro e che invece finiscono per farcela sempre in barba alla vita sana e regolare. 

E così, complice anche l'uscita del documentario di cui sopra, "Evidently... John Cooper Clarke", mi sono riascoltato in fila i suoi dischi - ne ha fatti parecchi, tutti bellissimi, spesso composti da vere e proprie canzoni su cui hanno suonato anche molti musicisti della scena di Manchester - e riguardato i vecchi filmati in rete. Impossibile non sorridere come un bambino durante "Evidently Chickentown", "Kung-fu International", "The Day My Pad Went Mad" e rincuorarsi nel vedere Johnny in buona forma durante alcune recenti esibizioni in cui viene osannato come fosse una star. In un mondo più giusto, il bardo di Salford lo sarebbe per davvero, ma che vogliamo farci...


martedì 3 aprile 2012

Stefano di dischi, lui fa la collezione

1- Una decina di giorni fa, a bordo della navetta per Malpensa, in direzione Londra, mi sono ascoltato con grandissimo gusto ed enorme sorpresa (non ricordavo quanto mi piacesse) una raccolta di pezzi di Eugenio Finardi compilata apposta per il mio iPhone.
2- Qualche tempo prima, discutendo dei contenuti di una nuova rivista top secret di cui vi parlerò quando sarà il momento, avevo proposto, con grande successo, un pezzo su un album del 1977, "Diesel" di Eugenio Finardi. 
3- Sull'ultimo numero di XL, quello di aprile appena uscito, scopro di avere una cosa in comune con Max Casacci (che intervista Eugenio Finardi). Per entrambi, il primo concerto in assoluto è stato del chitarrista e cantante milanese. Lui nel 1976, io tre anni più tardi.


E così, se tre indizi fanno una prova, mi tocca fare un post proprio sull'autore di "Musica ribelle", probabilmente il primo musicista italiano di cui sono diventato fan da adolescente. Avevo già scoperto il punk assieme a mio fratello, ma il bello di quel periodo era l'insaziabile curiosità che ci animava, una curiosità che non conosceva generi e confini: spesso si finiva per tornare a casa da Valerio e Cigna (i due negozi di dischi di Biella dove andavamo a spendere i soldi della paghetta settimanale) con le cose più disparate. Nella nostra discoteca si poteva trovare, fianco a fianco, Ramones, Dictators, Saints, Stranglers, Sex Pistols e Clash, ma pure Alberto Camerini, Ash Ra Tempel, Kraftwerk, Cheap Trick, Area, Frank Zappa, Stooges, Gong, Arti & Mestieri, MC5. Ed Eugenio Finardi, ovviamente. Non pensate che ci fossero due menti troppo consapevoli dietro a questa selezione, semplicemente la nostra ingenuità non ci permetteva ragionamenti sofisticati e così si andava per tentativi. Quasi tutti molto azzeccati, a onor del vero...


Tornando al protagonista di queste righe, fu dopo l'uscita di "Roccando rollando", ultimo suo lavoro su Cramps, che mio zio Ermanno portò me e mio fratello allo stadio Pistoni di Ivrea per vederlo dal vivo, il 29 agosto del 1979. Ho ricordi molto vaghi della serata: noi tre seduti per terra sull'erba ad aspettare l'inizio e poi a cantare tutte le canzoni; il gruppo eccezionale che accompagnava Finardi ovvero i Crisalide; l'inizio rock di "Tutto subito". E poi una canzone particolare, "Hold on", un  traditional cantato in inglese che Finardi eseguiva spesso dal vivo e che aveva fatto anche un paio di mesi prima all'Arena di Milano durante il concerto per Demetrio. Un blues molto sofferto, di cui non conoscevo nemmeno il titolo, ma che mi restò impresso nella memoria anche durante il viaggio di ritorno e che mi sarebbe spiaciuto non poter ascoltare su disco. Mio zio mi disse che era un pezzo troppo particolare per poter essere inciso in studio e che aveva senso solo dal vivo. All'epoca mi sembrava un commento molto pertinente, oggi un po' meno, sinceramente, ma chissà mai perché di tutta la serata mi è rimasto impresso proprio quello. Non posso più chiederlo a mio zio, purtroppo, ma dubito si ricorderebbe di una frase di 33 anni fa.

Per il resto della mia vita e fino a qualche mese fa, Finardi è rimasto in sottofondo, senza mai andare via del tutto però, con qualche sporadico ritorno di fiamma occasionale (rammento persino un concorso di Boy Music in cui si poteva vincere un giorno in sua compagnia!). Nel corso di vari traslochi e svendite ho finito per scambiare i vinili dei suoi primi cinque album, pentendomene in tempi recenti e ricomprandoli a prezzi triplicati, a dimostrazione del mio fiuto imprenditoriale. Li ho persino presi in CD, in un unico cofanetto, e la sorpresa di riascoltarli da cima a fondo è stata davvero inaspettata. I ricordi sono riaffiorati in maniera intensa e, complice una maggior esperienza, mi sono potuto godere appieno i suoi tre dischi più importanti, "Sugo", "Diesel" e "Blitz, quelli in cui ha raccolto il meglio del suo repertorio dei Settanta, e provare a immaginare cose di cui prima ignoravo l'esistenza (le "porte del cosmo su in Germania" saranno quelle dei corrieri cosmici e del kraut rock?). 

E così, proprio mentre sto correggendo queste righe per pubblicarle, digito su Google le parole Eugenio Finardi+Crisalide, per controllare tutti i nomi dei musicisti della sua band e la prima opzione della ricerca è quella di un blog che raccoglie in formato digitale quelli che una volta si chiamavano bootleg, ovvero registrazioni pirata di concerti. Apro il sito (http://rockrarecollectionfetish.blogspot.it/2012/01/eugenio-finardi-crisalide-stadio.html) e mi appare, con mio sommo sbigottimento, il file da scaricare del concerto di Ivrea, il primo della mia vita, con tanto di scaletta. QUEL concerto, insomma...
Dopo il download immediato, la cartellina resta sul mio desktop, chiusa e pronta per l'ascolto, mi fa quasi impressione aprirla. C'è anche "Scimmia", forse il mio pezzo preferito di Finardi, e verso la fine arriva "Hold On". Più tardi prendo coraggio e la ascolto, magari riesco a capire anche io se davvero non avrebbe senso come versione di studio...