sabato 21 agosto 2010

happy birthday joe


L'ho intervistato una volta sola, nel 2001, dopo l'uscita di "Global a go-go" e poco prima che morisse. Oggi avrebbe compiuto 58 anni. Buon compleanno, Joe!

Allora Joe, sei tornato al lavoro in maniera costante. Due album nel giro di poco tempo dopo un lungo silenzio.

È vero. La parte più difficile è stata trovare nuovamente un team vincente per ricominciare a suonare, qualcosa che mi desse gli stimoli giusti e facesse funzionare il tutto perchè non riesco a incidere dischi o a provare canzoni se la gente che suona con me non è sulla stessa lunghezza d’onda. Credo che ogni musicista possa raccontarti di quanto è penoso riuscire a trovare un sostituto se, per esempio, se ne va il batterista. E non si tratta solamente di una questione tecnica perchè poi con quelle stesse persone tu ci esci anche dopo aver suonato e devi passare un sacco di tempo con loro. L’ultima volta che abbiamo suonato in Italia, siamo partiti in autobus dall’Inghilterra e abbiamo guidato fino a Napoli. Immagina di dover stare chiuso lì dentro con della gente che non ti piace, diventeresti pazzo o faresti a botte.

Questo è il motivo per cui non hai più suonato con una band dopo lo scioglimento dei Clash?

Al momento dello scioglimento eravamo diventati dei freaks. Dopo tanti anni in un gruppo di successo è difficile ritornare con i piedi per terra e metterti sullo stesso piano con altri musicisti che non sono famosi come te. Ci ho messo parecchio tempo a rimettermi nel giusto ordine di idee perchè non volevo suonare solamente con una backing band e anche se il disco esce a nome Joe Strummer & The Mescaleros, abbiamo tutti lo stesso peso nell’economia del gruppo. Questo è il modo in cui voglio lavorare e sono felice che quasi tutti i pezzi siano accreditati alla band nel suo insieme. Il mio messaggio è: devi unirti a qualcuno per fare della buona musica; capisco che non sia universale ma per me funziona così. Quando ero nei Clash mi piaceva mettere le magliette con il nostro nome ma quando, nel 1988, ho fatto un album da solista odiavo le t-shirts con scritto Joe Strummer, mi sembravano stupide con quel nome solitario lì sopra.

Per un certo periodo hai anche suonato con i Pogues, un gruppo piuttosto famoso all’epoca.

Beh, devi tenere conto che non sono mai stato un membro effettivo vero e proprio. Quando il loro chitarrista si ammalò prima di un tour mondiale, gli altri decisero di chiedermi se potevo sostituirlo. Quindi, alla fine, ero più un ospite che altro, anche se i Pogues sono dei grandissimi amici prima che dei musicisti. Stavo giusto riascoltando qualche loro disco poco tempo fa e devo dire che suonano ancora straordinariamente bene nonostante gli anni. Hanno resistito all’usura del tempo. Mi ricordo quando uscì “A rainy night in Soho” e la gente pensava che fossero dei poveracci, anche i critici la pensavano così. Sono contento che si siano dovuti ricredere e abbiano dovuto ammettere la loro grandezza.

Quali tuoi dischi pensi che abbiano resistito all’usura degli anni?

“Global a go-go”, il nuovo album, penso che resisterà bene, poi “Sandinista”, “London calling” e “The Clash”.

La rivista inglese Mojo ha paragonato il tuo nuovo disco ad “Astral weeks” di Van Morrison.

Davvero? Forse c’è un certo feeling acustico comune ma non saprei. Comunque, parlando di quel disco, c’è un aneddoto che ti voglio raccontare. Se tu provi ad ascoltare attentamente le parti di basso ti accorgi che sono suonate in maniera stranissima (comincia a mimare con la bocca un suono assurdo che dovrebbe essere il basso - nda). Tutte le volte che lo mettevo su pensavo che quel bassista fosse o un genio oppure un ubriaco e così ho cominciato ad indagare su questa cosa e alla fine ho scoperto cos’era successo. L’etichetta discografica decise di far suonare dei musicisti jazz di New York come backing band pensando che, siccome erano dei mostri di tecnica, ci avrebbero messo meno tempo a registrare e a loro sarebbe costato meno. Immaginati questi due musicisti neri che non sapevano nulla di Van Morrison e che cercavano di suonare del be bop mentre lo accompagnavano. Una parte della magia di quel disco sta in questo incidente di percorso.

Ultimamente hai anche lavorato con Brian Setzer...

Sul suo ultimo disco c’è un pezzo che abbiamo scritto assieme ma risale a quasi due anni fa. Non eravamo molto soddisfatti del lavoro e lo avevamo cestinato. Christine, sua moglie, lo ha recuperato, ha cambiato una parte delle liriche e Brian ha deciso di includerlo nell’album.

C’è un concetto preciso dietro a “Global a go-go”?

La verità è che non c’è nessun concetto preciso. Nel campo artistico si è sempre in obbligo di fornire delle spiegazioni per il proprio lavoro e molto spesso sono delle grosse cazzate. Non c’è un concetto perchè non avevamo nessuna idea di quello che stavamo facendo. Ovviamente quando scrivo dei testi per le canzoni ho in mente un’idea ben precisa ma tendo a procedere un pezzo alla volta e non riesco a focalizzare il lavoro nel suo insieme. Forse potrei dirti che “Global a go-go” si riferisce al fatto che bisogna cercare di farsi entrare in testa che viviamo sullo stesso pianeta, che ne esiste uno soltanto, uguale per tutti. A parte questo non saprei cosa raccontarti, perchè credo sia stupido cercare sempre un significato a tutto ciò che succede. A volte bisogna accettare le cose come vengono senza pensarci troppo su.

Quello che si dice il bello della musica...

Credo di sì, il punto è proprio quello e io sono molto superstizioso quando si parla di musica. Non credo che ai Beatles fregasse qualcosa delle armoniche o di come si leggeva la musica sugli spartiti o della teoria. Parlando di me, non ho mai pensato a come fare per scrivere una canzone, lo facevo e basta. Non ho mai analizzato i miei pezzi cercando di capire come avevo fatto a comporli perchè non mi interessa. Nascono da soli e sono felice così. È il tuo mestiere quello di dire delle cose estremamente intelligenti sul mio lavoro, una tua preoccupazione (ride).

Hai lavorato di nuovo in campo cinematografico recentemente?

Non voglio più avere a che fare con un film in vita mia. Ho cercato di capire se sarei stato una stella del cinema perchè è il sogno che tutti hanno nella vita ma ho realizzato in fretta che non faceva per me, è troppo difficile. Però tre anni fa, un francese pazzo ha insistito così tanto che ho accettato di incontrarlo. In meno di dieci minuti mi aveva convinto a recitare in un delirio che si chiama “Docteur chance”. Quel ragazzo è una persona interessantissima e molto colta, abbiamo parlato per ore di un sacco di cose che io non conoscevo e alla fine sono stato contento di averlo fatto. È stato come andare all’università perchè lui parlava come una mitraglia in un misto di francese, inglese e spagnolo e io lo stavo ad ascoltare. Devo dire che mi piacerebbe lavorare di nuovo con lui e sono curioso di vedere come è venuto il film visto che è appena uscito in DVD. Ci sono anche i sottotitoli in inglese ma penso che nessuno capirà niente lo stesso (ride). È stato presentato ad un festival di cinema a Londra e dopo la proiezione io e lui siamo saliti sul palco per rispondere alle domande del pubblico. Nessuno ha osato chiedere niente e ti assicuro che era una situazione molto imbarazzante. Se non piace alla gente che va a quei festival mi chiedo cosa ne penseranno gli altri.

Tornando al disco nuovo, devo dire che fa capolino di nuovo la tua passione per una certa world music, in questo caso qualche aroma cubano.

Non proprio ma un fondo di verita c’è. In questo periodo sta circolando parecchia musica cubana, cose tipo Buena Vista Social Club, e io mi sono innamorato del loro modo di suonare e, soprattutto, registrare le congas. Anche se hai le migliori percussioni del mondo è quasi impossibile riuscire a ottenere quel tipo di suono. Devi cercare di suonare lentamente ma con forza mentre viene più naturale un suono molto soft. Questa è la prima volta che riesco ad avere delle percussioni che suonano circa come quelle cubane perchè è difficile anche capire come posizionare i microfoni durante la registrazione. Immagino che sia un loro segreto.

Cosa mi dici del ritorno di Tymon Dogg?

Sono felice che sia di nuovo con me, dopo “Sandinista”. Lui mi ha insegnato a suonare la chitarra nel 1971, era un musicista di strada, un busker, e io facevo la colletta per lui. Oltre a suonare nella metropolitana di Londra, abbiamo girato per l’Europa, in Francia, Olanda, Belgio. Dopo tanti anni ci siamo incontrati per caso e così gli ho chiesto di suonare sul disco.

Cosa pensi dell’eredità che hanno lasciato i Clash?

Ovviamente sono molto orgoglioso. Mi sono sempre chiesto come avremmo reagito se avessimo saputo allora di essere così importanti per molta gente e che in futuro saremmo stati considerati una delle più importanti rock’n’roll bands di sempre. All’epoca nessuno di noi aveva questa sensazione.

Come è cambiato il music business in questi anni?

Certamente è peggiorato se penso anche alla mia grande difficoltà nel trovare un’etichetta disposta a pubblicare i miei dischi. Una volta se il tuo album di debutto non vendeva, avevi comunque una seconda o una terza possibilità mentre oggi se non fai il botto al primo colpo sei scaricato in mezzo alla strada. Non penso che i discografici di oggi riconoscerebbero un nuovo Frank Sinatra nemmeno se lo avessero davanti e questa è una situazione che ti rende nervoso come musicista. Io devo dire grazie alla Hellcat perchè ha dimostrato di credere in me, ha dimostrato di essere una punk rock label nel vero senso della parola. Tornando alla domanda di prima, quella sull’eredità dei Clash, ti posso dire che all’industria musicale non gliene frega un cazzo della tua storia o di chi sei: se non vendi, non sei nessuno.

E cosa pensa Joe Strummer del punk nel 2001?

Io devo tutto al punk, tutta la mia vita. Nel 1977 mi ha salvato dal diventare un chitarrista di qualche cover band che suona nei bar e che deve schivare le bottiglie di birra mentre nel 2001 il punk mi ha salvato nuovamente permettendomi di incidere dischi per un’etichetta di successo, che mi stima come musicista.