venerdì 17 dicembre 2010
24 ore per la vita
giovedì 16 dicembre 2010
Vecchio, diranno che sei vecchio
discogs
Un post di pubblica utilità, soprattutto mia. Ho cominciato a vendere alcuni pezzi della mia collezione di vinili, altri ne seguiranno, presto o tardi vorrei riuscire a rendere la cosa un po' più professionale e meno dilettantesca. Intanto se vi piacciono i dischi comprateli o spargete la voce.
giovedì 18 novembre 2010
anarchì in sicily
lunedì 15 novembre 2010
canzoni che valgono una carriera pt.1
Era un po' di tempo che volevo fare un post del genere, o meglio iniziare un appuntamento settimanale con dei post a tema, dedicati, come da titolo a quelle canzoni che da sole valgono un'intera carriera. Non sto parlando necessariamente di "one hit wonders", cioè meteore che hanno fatto un pezzo famoso e poi sono scomparse, non sempre le cose coincidono. Semplicemente ci sono dei gruppi, per me quanto meno, che identifico sempre e comunque con un brano e basta, sebbene abbiano una media o lunga carriera, abbiano inciso altre cose meritevoli, dimostrando di meritarsi fama e successo. Non è un'accusa quindi, solo un modo per segnalarvi settimanalmente una serie di canzoni che dovreste a tutti i costi sentire una volta nella vita, perché di qualità eccelsa.
damaged goods
venerdì 29 ottobre 2010
l'ultimo disco dei mohicani
lunedì 25 ottobre 2010
black hole
giovedì 21 ottobre 2010
cos'hai nella borsa?
Molti di voi lo conosceranno già, ma mi pare obbligatorio segnalare "What's in my bag?" a chi non l'avesse mai visto. Di cosa si tratta? È molto semplice: Amoeba di Los Angeles (nella foto), uno dei negozi di dischi migliori del mondo - chi ha avuto la fortuna di passarci almeno una volta capirà la mia sindrome di Stendhal ogni volta che ci sono entrato -, frequentato da emeriti sconosciuti ma, spesso, anche da celebrità, registra dei piccoli episodi di questo format semplice ma molto interessante. Il personaggio famoso di turno seleziona i dischi che si comprerà di lì a poco e poi li mostra al pubblico motivando le proprie scelte. Capita quindi di trovare Simon Le Bon e John Taylor che comprano vinili di Clash, Devo, Neu!, Patti Smith, PIL e King Crimson oppure Elijah Wood, mister Frodo in persona, che parla di Gal Costa, Raincoats e 13th Floor Elevators, e ancora Dave Grohl che seleziona solo singoli di hardcore punk. Sul sito di Amoeba (http://www.amoeba.com/whats-in-my-bag/index.html#/page1) ci sono ben 130 artisti più o meno celebri e per tutti i gusti che discutono con passione e competenza della musica che amano, molto spesso con dei bei vinili in mano: da Pink Eyes dei Fucked Up agli X, dalle Slits agli Horrors e poi Salt'n'Pepa, Dinosaur Jr., Ben Stiller, Eli Roth, Noel Gallagher, Mos Def, Afrika Bambaataa e decine di altri. Non mi viene in mente un metodo migliore per ricordare a tutti quanto è bello entrare in un negozio di dischi e perdere una giornata intera a sfogliare dischi e decidere quali comprare. Certo, se abitassi a Los Angeles e non a Milano...
ciao Ari
lunedì 18 ottobre 2010
Il mio nome è Crass
"They said that we were trash
Well the name is Crass not Clash
They can stuff their punk credentials
Cause it's them that take the cash
They won't change nothing with their fashionable talk
Their RAR badges and their protest walk
Thousands of white men standing in a park
Objecting to racism like a candle in the dark"
Pensare a un tribunale che dirime le questioni legali dei Crass è un segno dei (brutti) tempi in cui viviamo. Un po' come quando Jello Biafra e i restanti Dead Kennedys si scannarono per anni tra avvocati e giudici. Anarchy, peace and freedom is what I want (se si eccettua la mia fetta di diritti d'autore e di soldi).
Leggete l'intervista di Vice e fatevi la vostra idea...
venerdì 1 ottobre 2010
stupidity
tracce di rossetto
martedì 14 settembre 2010
no control
Dalla prossima settimana ricomincia la trasmissione radio mia e del buon Mox, No Control. La potrete ascoltare in streaming sul sito www.linearock.it, esattamente come la scorsa edizione. Appena ho ragguagli sul giorno in cui andrà in onda ve lo faccio sapere. Intanto, per celebrare il ritorno radiofonico del punk, ecco una vecchia intervista a Glen Matlock che ho fatto qualche anno fa, riveduta e corretta. Lui era in Italia con i Dead Men Walking (ah l'ironia...), gruppaccio che comprendeva anche altri vecchi eroi come Slim Jom Phantom (Stray Cats), Kirk Brandon (Theatre Of Hate) e Mike Peters degli Alarm, e si è gentilmente prestato per un'oretta dopo il concerto a fare due chiacchiere con me. Seduti per terra, dietro al palco del Transilvania a Milano, ecco cosa ci siamo detti...
Partiamo da questa serata... Sembra che tu e gli altri vi divertiate tantissimo a stare sul palco e riproporre un repertorio ormai classico, che comprende brani di tutte le band in cui avete militato. Come sono nati i Dead Men Walking?
Glen Matlock: Principalmente, sono nati quando abbiamo scoperto di essere amici uno con l’altro. Dopo un rapido giro di telefonate, ho capito che ognuno di noi conosceva gli altri possibili membri della band e quindi è stato molto facile assemblare la line-up e cominciare a provare. È una cosa molto “easy”, un gruppo che vuole far divertire la gente con canzoni che tutti, bene o male, conoscono, Il segreto sta tutto qui. Comunque, tutti noi abbiamo altri progetti: io e Mike suoniamo con gli Alarm, Slim Jim con gli Stray Cats... Ho fatto uscire un nuovo album con i Philistines, l’abbiamo appena presentato dal vivo. Ah, dimenticavo, ci sono anche i Sex Pistols (ride)...
Avete appena finito un tour negli Stati Uniti...
G.M.: È vero, è andato molto bene, ci siamo divertiti parecchio. È un po’ come quando torni a far casino con la tua vecchia gang, non servono parole, ci si capisce al volo...
E dire che, all’epoca, la tua uscita dalla band era stata piuttosto burrascosa...
G.M.: Beh, i giornali hanno esagerato le cose, c’erano tensioni, ma dettate dalla situazione di merda in cui eravamo. E poi Malcolm spingeva per il mio licenziamento perché diceva che non ero in linea col resto della band, visto che mi piacevano i Beatles. Eravamo giovani (ride)...
G.M.: Appena prima di andarmene dai Pistols, Mike Thorne, che era l’A&R della EMI, mi disse che, in ogni caso, gli sarebbe piaciuto avermi come artista sulla sua etichetta. Mi sembrava un’offerta interessante anche se non sapevo ancora che sarebbe successo di lì a poco. La sera stessa in cui ci fu la discussione col resto del gruppo, me ne andai in un pub chiamato Roebuck, dove incontrai Steve New, un amico che aveva anche fatto un’audizione per entrare come secondo chitarrista dei Pistols. Cominciammo a parlare e lui mi presentò Rusty Egan, che suonava quella sera, dicendomi quanto fosse bravo come batterista e che aveva fatto l’audizione per entrare nei Clash. In un attimo avevo già due membri della mia nuova band, senza neppure il nome! Cominciammo a suonare a casa mia, in uno squat, perché non avevamo una lira in tasca, nella speranza di trovare un buon cantante. Il nome Rich Kids arriva da un passaggio del libro “I ragazzi terribili” di Jean Cocteau.
G.M.: Aveva fatto un’audizione per diventare secondo chitarrista dei Sex Pistols, come ti raccontavo prima, soprattutto perché Paul pensava che Steve non fosse così bravo (ride). Comunque, vedi com’è strana la vita, Steve lavorava come fattorino alla Warner e aveva ereditato il posto da Rusty! Dopo aver provato un sacco di gente, decidemmo di tenere Midge Ure e scrivere qualche pezzo assieme a lui. A quel punto avevamo già il contatto con la EMI, grazie a Mike, sebbene ci fossero molte etichette sulle nostre tracce: Chrysalis, Polydor, Virgin. Il primo concerto dei Rich Kids successe per caso: eravamo andati a vedere i Police all’Hope & Anchor e, siccome il gruppo spalla non si era presentato, il proprietario ci chiese di fare qualche pezzo. La serata andò benissimo e così cominciò una serie di date in giro per Londra, fino al momento in cui Midge ci disse che non non se ne faceva nulla. Proseguimmo per un po’ con me al basso e alla voce e Mick Jones dei Clash alla seconda chitarra. Appena Midge seppe, qualche tempo dopo, che la EMI aveva pronto un contratto per 150.000 sterline, mi telefonò per dire che ci aveva ripensato (ride).
I vostri primi singoli e l’album furono dei buoni successi...
G.M.: Il singolo d’esordio, “Rich Kids”, è stato una sorpresa anche per la EMI, che non si aspettava tutta questa attenzione, ma l’album è arrivato troppo presto, non eravamo pronti per inciderlo. Non c’era materiale a sufficienza e, soprattutto, c’erano troppi pezzi scritti da Midge... Quella non era la strada che volevo percorrere coi Rich Kids, ma la EMI spingeva per avere un disco fuori al più presto possibile, voleva un’altra punk band, al contrario di quello che desideravo io. Poco dopo la pubblicazione dell’esordio, Rusty e Midge cominciarono a interessarsi al nascente movimento “new romantic” (i due, infatti, saranno protagonisti della scena con i Visage, progetto di Steve Strange, e il solo Midge con la versione elettronica e pop degli Ultravox - nda), di cui a me non fregava un cazzo e questo portò i Rich Kids alla fine del percorso. Mi sarebbe piaciuto fare un secondo album, ma non ce ne fu la possibilità, magari anche continuare assieme a Mick per qualche tempo...
Intanto la tua carriera è proseguita come bassista di Iggy Pop...
G.M.: Dopo lo scioglimento dei Rich Kids non sapevo proprio cosa fare, ma come spesso succede in casi del genere, fu una telefonata inaspettata a risolvere il mio problema. Era il manager di Iggy Pop, Peter Davis, che mi chiedeva se fossi disponibile a fare un tour con lui. Aveva appena inciso “New values” e il bassista di quelle session avrebbe suonato la seconda chitarra durante i concerti, per cui necessitavano di un sostituto. È stato davvero così semplice, sono partito per il tour europeo e qualche tempo dopo sono entrato in studio con Iggy per registrare “Soldier”. Poi ci sono state ancora delle date negli Stati Uniti e basta, ho mollato il lavoro.
Perché?
G.M.: Avevo portato Steve New con me a registrare “Soldier”, a Iggy era piaciuto molto e l’aveva inserito tra i musicisti per quell’album. Steve, però, litigò pesantemente con David Bowie per una storia di donne e Iggy mixò il disco tagliando tutte le parti di chitarra di Steve, una cosa che mi diede molto fastidio. Glielo dissi e me ne andai, anche se, qualche tempo dopo, lo incontrai in un bar a New York e mi giurò che era dispiaciuto per la mia partenza e che ero uno dei suoi bassisti preferiti. In retrospettiva, devo dire che Iggy è una delle persone più professionali con cui abbia mai lavorato in vita mia, a dispetto della sua immagine di animale del rock’n’roll. Poteva essere fatto fino al midollo, ma sul palco era perfetto e dava tutto se stesso.
Che successe dopo?
G.M.: Me ne tornai a casa in Inghilterra e ripresi a suonare per i fatti miei. La mia band successiva, nel 1980 circa, si chiamava The Spectres con cui registrai un primo singolo autoprodotto, tanto per tastare il terreno, visto che ero in parola con i tipi della Arista per un contratto. Loro risposero prendendo tempo, li mandai a cagare e tornai alla Polydor che mi aveva sempre corteggiato. La Arista, però, aveva comunicato che ci aveva messo sotto contratto e così la Polydor spese i soldi che aveva in mente di dare a noi per firmare un nuovo contratto con Siouxsie & The Banshees. Non sono mai stato un grande manager di me stesso, devo ammettere (ride). Continuammo a suonare per un anno e mezzo circa, incidemmo un altro singolo per la Demon e poi ci sciogliemmo senza troppi rimorsi. Il resto di quella decade non fu un grande periodo per me, ma pure per il rock in generale, c’erano un sacco di gruppi di merda in giro. Così me ne sono stato per i fatti miei, badando alle mie cose, in attesa di momenti migliori. Ora sto certamente meglio che negli anni Ottanta.
Nei Novanta è arrivato il tour della reunion dei Sex Pistols che ti ha portato di nuovo in giro per il mondo. Come è stato ritrovarsi con gli altri tre, dopo tutto quello che era successo?
G.M.: Noi quattro abbiamo qualcosa in comune che nessun altro ha, cioè i Sex Pistols. All’inizio non sapevo che tipo di reazione avremmo avuto, ma è andato tutto bene e così ogni tanto ci ritroviamo e facciamo qualche data assieme, è divertente. Quest’anno siamo di nuovo tra i candidati per entrare nella Rock & Roll Hall Of Fame, quindi significa che qualcosa di buono l’abbiamo pur fatto. E poi, se ci sono i Clash, dobbiamo esserci pure noi (ride).
Nel 1977, la stampa inglese amava mettere in contrapposizione i Clash coi Pistols, tanto per ricreare quell’effetto Beatles contro Rolling Stones che tanto piaceva al pubblico. In realtà, eravate amici...
G.M.: Assolutamente sì. Prima dei Pistols, suonavo spesso con Mick e mi ricordo di quando lui fece un’audizione a Chrissie Hynde per una versione primitiva dei Clash. Quando me ne andai dai Pistols, mi trovai in un pub con Mick e Joe Strummer e mi offrirono il posto come bassista nei Clash. Io risposi che mi spiaceva per Paul, che avrebbero dovuto continuare con lui e basta. Infatti così fecero...
Hai mai avuto occasione di collaborare in maniera seria con Mick Jones?
G.M.: Mi sarebbe piaciuto molto, ma lui è troppo esaltato dalle cose elettroniche, techno, house, hip hop e io non c’entro nulla con quella roba. Nessun problema, apprezzo anche qualche suo disco recente, ma non fa per me, e poi credo che farebbe bene a tornare a suonare del sano rock’n’roll, perché lui è un chitarrista stiloso e eccezionale. Ora io sono felice dei Philistines, suono una specie di rock anni Settanta, ci sono influenze alla Sweet o Slade, ma anche di punk, ovviamente. Non puoi cambiare le tue radici...
Toglimi una curiosità... È vero che fosti chiamato anche a far parte dei Jam?
G.M.: È vero, furono Paul Weller e Bruce Foxton a offrirmi un posto come secondo chitarrista, sempre dopo la mia uscita dai Pistols. Parlammo per un po’ della questione e andò tutto bene fino a quando mi chiesero se ero disposto a mettermi un vestito come il loro per suonare. Gli dissi che non se ne faceva niente e me ne andai (ride)...
Solo per i vestiti?
G.M.: Sì, solo per quello. Magari le cose sarebbero finite in modo diverso, chissà, avrei potuto suonare con Paul Weller, l’ho sempre stimato come songwriter.
Ascoltandoti parlare, si ha proprio l’impressione che tu ti sia divertito in quegli anni...
G.M.: Puoi scommetterci. È stato un momento magico per me e per tutti quelli che avevano diciotto anni a quell’epoca. Mi spiace non essere più un ragazzino - e non c’è molto che io possa fare a riguardo - ma in fondo ho vissuto una vita straordinaria, anche se non sono mai stato una rockstar vera e propria. Il nostro successo era diverso, non sono Phil Collins, tanto per dirne una, mi sento un musicista che deve lavorare per mantenersi e questa è la condizione ideale per tenere i piedi ben piantati per terra e restare a contatto con la gente.
A proposito di contatti... Hai mai più sentito Malcolm McLaren o Vivienne Westwood?
G.M.: No. Ma so che Vivienne ormai è una star mondiale della moda. Lo si capiva che sarebbe diventata famosa, è una donna determinata, una specie di Thatcher (ride). Sono contento per lei, mi piacciono anche i suoi vestiti... È sempre stata brava a capire e interpretare i gusti della gente, sia con i Pistols che in seguito, da sola, con le sue creazioni.
Ascolti molta musica oggi?
G.M.: Poca, preferisco concentrarmi su quella che compongo io. Ascolto qualche band attuale, cose come Kings Of Leon o Jet, ma nulla che mi faccia gridare al miracolo.
Hai mai sentito nulla, in tutti questi anni, che abbia avuto lo stesso impatto dei Pistols, dei Clash o dei Ramones?
G.M.: (lunga pausa) No, non credo proprio, ma capisco che ora sia molto più difficile. Tutto è stato già scritto e suonato. I Jet, per esempio, suonano come i Pretty Things o i Rolling Stones, sono una revival band, nulla di nuovo o epocale. Non riesco ad appassionarmi...
Nemmeno i Nirvana?
G.M.: Erano una buona band, ma sai... io sono un punk, ho sempre avuto problemi con i capelloni (ride)...
domenica 5 settembre 2010
something on your mind
So you turned your days into night-time,
Didnt you know, you cant make it without ever even trying?
And something's on your mind, isn't it
Let these times show you that you're breaking up the lines,
Leaving all your dreams too far behind,
Didn't you see, you can't make it without ever even trying?
And something's on your mind.
Maybe another day you'll want to feel another way, you can't stop crying,
You haven't got a thing to say, you feel you want to run away
There's no use trying, anyway.
I've seen the writing on the wall,
Who cannot maintain will always fall,
Well, you know, you can't make it without ever even trying.
And something's on your mind, isn't it
Tell the truth now, isn't it
And something's on your mind, isn't it
venerdì 27 agosto 2010
la torre di Londra
sabato 21 agosto 2010
happy birthday joe
L'ho intervistato una volta sola, nel 2001, dopo l'uscita di "Global a go-go" e poco prima che morisse. Oggi avrebbe compiuto 58 anni. Buon compleanno, Joe!
Allora Joe, sei tornato al lavoro in maniera costante. Due album nel giro di poco tempo dopo un lungo silenzio.
È vero. La parte più difficile è stata trovare nuovamente un team vincente per ricominciare a suonare, qualcosa che mi desse gli stimoli giusti e facesse funzionare il tutto perchè non riesco a incidere dischi o a provare canzoni se la gente che suona con me non è sulla stessa lunghezza d’onda. Credo che ogni musicista possa raccontarti di quanto è penoso riuscire a trovare un sostituto se, per esempio, se ne va il batterista. E non si tratta solamente di una questione tecnica perchè poi con quelle stesse persone tu ci esci anche dopo aver suonato e devi passare un sacco di tempo con loro. L’ultima volta che abbiamo suonato in Italia, siamo partiti in autobus dall’Inghilterra e abbiamo guidato fino a Napoli. Immagina di dover stare chiuso lì dentro con della gente che non ti piace, diventeresti pazzo o faresti a botte.
Questo è il motivo per cui non hai più suonato con una band dopo lo scioglimento dei Clash?
Al momento dello scioglimento eravamo diventati dei freaks. Dopo tanti anni in un gruppo di successo è difficile ritornare con i piedi per terra e metterti sullo stesso piano con altri musicisti che non sono famosi come te. Ci ho messo parecchio tempo a rimettermi nel giusto ordine di idee perchè non volevo suonare solamente con una backing band e anche se il disco esce a nome Joe Strummer & The Mescaleros, abbiamo tutti lo stesso peso nell’economia del gruppo. Questo è il modo in cui voglio lavorare e sono felice che quasi tutti i pezzi siano accreditati alla band nel suo insieme. Il mio messaggio è: devi unirti a qualcuno per fare della buona musica; capisco che non sia universale ma per me funziona così. Quando ero nei Clash mi piaceva mettere le magliette con il nostro nome ma quando, nel 1988, ho fatto un album da solista odiavo le t-shirts con scritto Joe Strummer, mi sembravano stupide con quel nome solitario lì sopra.
Per un certo periodo hai anche suonato con i Pogues, un gruppo piuttosto famoso all’epoca.
Beh, devi tenere conto che non sono mai stato un membro effettivo vero e proprio. Quando il loro chitarrista si ammalò prima di un tour mondiale, gli altri decisero di chiedermi se potevo sostituirlo. Quindi, alla fine, ero più un ospite che altro, anche se i Pogues sono dei grandissimi amici prima che dei musicisti. Stavo giusto riascoltando qualche loro disco poco tempo fa e devo dire che suonano ancora straordinariamente bene nonostante gli anni. Hanno resistito all’usura del tempo. Mi ricordo quando uscì “A rainy night in Soho” e la gente pensava che fossero dei poveracci, anche i critici la pensavano così. Sono contento che si siano dovuti ricredere e abbiano dovuto ammettere la loro grandezza.
Quali tuoi dischi pensi che abbiano resistito all’usura degli anni?
“Global a go-go”, il nuovo album, penso che resisterà bene, poi “Sandinista”, “London calling” e “The Clash”.
La rivista inglese Mojo ha paragonato il tuo nuovo disco ad “Astral weeks” di Van Morrison.
Davvero? Forse c’è un certo feeling acustico comune ma non saprei. Comunque, parlando di quel disco, c’è un aneddoto che ti voglio raccontare. Se tu provi ad ascoltare attentamente le parti di basso ti accorgi che sono suonate in maniera stranissima (comincia a mimare con la bocca un suono assurdo che dovrebbe essere il basso - nda). Tutte le volte che lo mettevo su pensavo che quel bassista fosse o un genio oppure un ubriaco e così ho cominciato ad indagare su questa cosa e alla fine ho scoperto cos’era successo. L’etichetta discografica decise di far suonare dei musicisti jazz di New York come backing band pensando che, siccome erano dei mostri di tecnica, ci avrebbero messo meno tempo a registrare e a loro sarebbe costato meno. Immaginati questi due musicisti neri che non sapevano nulla di Van Morrison e che cercavano di suonare del be bop mentre lo accompagnavano. Una parte della magia di quel disco sta in questo incidente di percorso.
Ultimamente hai anche lavorato con Brian Setzer...
Sul suo ultimo disco c’è un pezzo che abbiamo scritto assieme ma risale a quasi due anni fa. Non eravamo molto soddisfatti del lavoro e lo avevamo cestinato. Christine, sua moglie, lo ha recuperato, ha cambiato una parte delle liriche e Brian ha deciso di includerlo nell’album.
C’è un concetto preciso dietro a “Global a go-go”?
La verità è che non c’è nessun concetto preciso. Nel campo artistico si è sempre in obbligo di fornire delle spiegazioni per il proprio lavoro e molto spesso sono delle grosse cazzate. Non c’è un concetto perchè non avevamo nessuna idea di quello che stavamo facendo. Ovviamente quando scrivo dei testi per le canzoni ho in mente un’idea ben precisa ma tendo a procedere un pezzo alla volta e non riesco a focalizzare il lavoro nel suo insieme. Forse potrei dirti che “Global a go-go” si riferisce al fatto che bisogna cercare di farsi entrare in testa che viviamo sullo stesso pianeta, che ne esiste uno soltanto, uguale per tutti. A parte questo non saprei cosa raccontarti, perchè credo sia stupido cercare sempre un significato a tutto ciò che succede. A volte bisogna accettare le cose come vengono senza pensarci troppo su.
Quello che si dice il bello della musica...
Credo di sì, il punto è proprio quello e io sono molto superstizioso quando si parla di musica. Non credo che ai Beatles fregasse qualcosa delle armoniche o di come si leggeva la musica sugli spartiti o della teoria. Parlando di me, non ho mai pensato a come fare per scrivere una canzone, lo facevo e basta. Non ho mai analizzato i miei pezzi cercando di capire come avevo fatto a comporli perchè non mi interessa. Nascono da soli e sono felice così. È il tuo mestiere quello di dire delle cose estremamente intelligenti sul mio lavoro, una tua preoccupazione (ride).
Hai lavorato di nuovo in campo cinematografico recentemente?
Non voglio più avere a che fare con un film in vita mia. Ho cercato di capire se sarei stato una stella del cinema perchè è il sogno che tutti hanno nella vita ma ho realizzato in fretta che non faceva per me, è troppo difficile. Però tre anni fa, un francese pazzo ha insistito così tanto che ho accettato di incontrarlo. In meno di dieci minuti mi aveva convinto a recitare in un delirio che si chiama “Docteur chance”. Quel ragazzo è una persona interessantissima e molto colta, abbiamo parlato per ore di un sacco di cose che io non conoscevo e alla fine sono stato contento di averlo fatto. È stato come andare all’università perchè lui parlava come una mitraglia in un misto di francese, inglese e spagnolo e io lo stavo ad ascoltare. Devo dire che mi piacerebbe lavorare di nuovo con lui e sono curioso di vedere come è venuto il film visto che è appena uscito in DVD. Ci sono anche i sottotitoli in inglese ma penso che nessuno capirà niente lo stesso (ride). È stato presentato ad un festival di cinema a Londra e dopo la proiezione io e lui siamo saliti sul palco per rispondere alle domande del pubblico. Nessuno ha osato chiedere niente e ti assicuro che era una situazione molto imbarazzante. Se non piace alla gente che va a quei festival mi chiedo cosa ne penseranno gli altri.
Tornando al disco nuovo, devo dire che fa capolino di nuovo la tua passione per una certa world music, in questo caso qualche aroma cubano.
Non proprio ma un fondo di verita c’è. In questo periodo sta circolando parecchia musica cubana, cose tipo Buena Vista Social Club, e io mi sono innamorato del loro modo di suonare e, soprattutto, registrare le congas. Anche se hai le migliori percussioni del mondo è quasi impossibile riuscire a ottenere quel tipo di suono. Devi cercare di suonare lentamente ma con forza mentre viene più naturale un suono molto soft. Questa è la prima volta che riesco ad avere delle percussioni che suonano circa come quelle cubane perchè è difficile anche capire come posizionare i microfoni durante la registrazione. Immagino che sia un loro segreto.
Cosa mi dici del ritorno di Tymon Dogg?
Sono felice che sia di nuovo con me, dopo “Sandinista”. Lui mi ha insegnato a suonare la chitarra nel 1971, era un musicista di strada, un busker, e io facevo la colletta per lui. Oltre a suonare nella metropolitana di Londra, abbiamo girato per l’Europa, in Francia, Olanda, Belgio. Dopo tanti anni ci siamo incontrati per caso e così gli ho chiesto di suonare sul disco.
Cosa pensi dell’eredità che hanno lasciato i Clash?
Ovviamente sono molto orgoglioso. Mi sono sempre chiesto come avremmo reagito se avessimo saputo allora di essere così importanti per molta gente e che in futuro saremmo stati considerati una delle più importanti rock’n’roll bands di sempre. All’epoca nessuno di noi aveva questa sensazione.
Come è cambiato il music business in questi anni?
Certamente è peggiorato se penso anche alla mia grande difficoltà nel trovare un’etichetta disposta a pubblicare i miei dischi. Una volta se il tuo album di debutto non vendeva, avevi comunque una seconda o una terza possibilità mentre oggi se non fai il botto al primo colpo sei scaricato in mezzo alla strada. Non penso che i discografici di oggi riconoscerebbero un nuovo Frank Sinatra nemmeno se lo avessero davanti e questa è una situazione che ti rende nervoso come musicista. Io devo dire grazie alla Hellcat perchè ha dimostrato di credere in me, ha dimostrato di essere una punk rock label nel vero senso della parola. Tornando alla domanda di prima, quella sull’eredità dei Clash, ti posso dire che all’industria musicale non gliene frega un cazzo della tua storia o di chi sei: se non vendi, non sei nessuno.
E cosa pensa Joe Strummer del punk nel 2001?
Io devo tutto al punk, tutta la mia vita. Nel 1977 mi ha salvato dal diventare un chitarrista di qualche cover band che suona nei bar e che deve schivare le bottiglie di birra mentre nel 2001 il punk mi ha salvato nuovamente permettendomi di incidere dischi per un’etichetta di successo, che mi stima come musicista.
giovedì 12 agosto 2010
io e joey
mercoledì 11 agosto 2010
kossiga con la kappa
Quando sarà la sua ora, pare tra non molto, prima di partire coi coccodrilli, le rivalutazioni, le frasi di circostanza, i discorsi tipo "sì, ma in fondo taldeitali è peggio", il solito buonismo d'accatto e via di questo passo, ricordatevi di queste perle uscite dalla sua bocca. L'ultimo tassello di una carriera passata a mentire, depistare e rovinare questo orrendo paese in cui ci tocca vivere: "In primo luogo lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito... Lasciar fare gli universitari, ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì".